Dopo l’arringa alla Nazioni Unite della giovane attivista svedese Greta Thunberg, ancora una volta – su un tema che potremmo definire “sensibile” – si è creata quella divisione che sembra confinare la questione ambientale nel giardino degli ambientalisti. Un po’ come i temi della sicurezza e dell’immigrazione, che sembrano riguardare qualcuno e qualcun altro no.



Partiamo qui, dal presupposto che i problemi legati al clima e all’ambiente siano cruciali per la nostra epoca e che non si comprende come, persino in ambito scientifico, vi sia la sempre presente corrente negazionista. Non ci interessa qui la discussione se Greta Thunberg sia o non sia una nuova Giovanna d’Arco, troviamo più interessante riflettere e capire di quali istanze – più o meno direttamente e più o meno consapevolmente – la giovane attivista si stia facendo rappresentante.



Il processo della globalizzazione degli ultimi 30 anni ha visto le economie avanzate spostare (e in parte creare) la propria produzione in quelle economie emergenti, in particolare Cina e India, che nel tempo sono diventate dei colossi, in primis perché hanno piano piano assimilato il nostro know how (anche rubandoci dei brevetti), in secondo luogo perché – in presenza di un tessuto sociale con molti meno diritti – hanno utilizzato massivamente la loro forza lavoro. Il risultato di questo processo è che oggi l’Occidente ha perso il suo primato economico ed è costretto a ritrovare non solo un nuovo modello di sviluppo ma anche il modo per contrastare, soprattutto, la forza della Cina.



Il fenomeno Greta Thunberg nasce come volto del futuro, delle nuove generazioni, di un mondo migliore e meno inquinato; arriva oggi a incontrare interessi complessi che, probabilmente, la piccola Greta non aveva in mente. Perché avviene questo connubio tra innovazione, ambiente, industria ed economia? Storicamente l’innovazione è sempre stata la rotta principale dell’economia: gli inglesi, che furono i più veloci ad applicare il motore a vapore nella produzione, sono stati i primi a svilupparsi come economia avanzata. I grandi player dell’industria sanno molto bene che o questa è capace di innovarsi o non vince la competizione. Oggi, l’obiettivo che i grandi player hanno – che è anche condiviso dalla politica – è quello di riportare a casa le produzioni da quei paesi dove il lavoro costa poco per riposizionarle sul mercato domestico.

Tuttavia, ci troviamo qui di fronte a un cambio di rotta storico. I paradigmi economici nati con la prima rivoluzione industriale e arrivati al loro culmine nel periodo post bellico si sono rivelati obsoleti innanzi alle sfide di un mondo globale ecologicamente e socialmente complesso. La crisi del 2008 è stata solo il sintomo di una “malattia” ben più profonda, un declino che vede il tramonto di alcuni valori e modelli di sviluppo di cui l’Occidente è stato campione.

Greta è, volendo o nolendo, il volto di un movimento tellurico di rivoluzione delle strutture economico-sociali; quello che domanda non è un cambio nella chimica dell’atmosfera terrestre, ma un cambio nella chimica sociale della civiltà globale e, dunque, in ultima istanza, del modello di sviluppo economico.

Gli scienziati hanno preparato un terreno concettuale, lei e molti attivisti hanno aperto un varco mediatico e ora sta alla politica cogliere questa opportunità storica per ridare vita alle stanche radici della civiltà industriale. È tempo che, con rinnovato vigore, gli interessi di chi vuole tenere unito sviluppo economico e benessere sociale prevalgano su quelli dei promotori di un business disincarnato. È tempo che la connessione con il territorio diventi un aspetto non dimenticato dai processi trans-nazionali e che il welfare trovi una più autentica espressione, anche ecologica.

La sfida del presente è grande, molto più grande di Greta o di ogni singolo individuo, essa richiede maturità, coraggio e lungimiranza. Nella transizione ad una economia verde, di fatto e non di nome, alcuni inevitabilmente usciranno vincenti e altri, troppo legati ai modelli del passato, perdenti. Ciononostante, se a livello di competizione tra imprese si vedranno “vincitori” e “vinti”, per i cittadini del mondo questo cambiamento sarà indubbiamente un riscatto.

Naturalmente, compito della società della seconda globalizzazione, sarà anche quello di evitare le fratture sociali della prima. Il dado è tratto e, direbbe Popper, il futuro è aperto. A noi il compito di costruire una società aperta, ovvero il più possibile moderna, sicura e inclusiva.

Twitter: @sabella_thinkin