Il prossimo Gala della Niaf – National Italian American Foundation, la più numerosa e importante organizzazione italoamericana – in programma a Washington il prossimo sabato 14 ottobre sarà dedicato alla diaspora dei nostri connazionali e dei loro discendenti. Una comunità che si può contare in 80 milioni in tutto il mondo, il 90% e più dei quali concentrati in Nord America considerata la vera Mecca per chi dall’Ottocento a oggi ha cercato di conquistare una vita migliore. Con una rilevante differenza tra i primi emigrati, mossi dalla fame, e gli ultimi, giovani e istruiti alla ricerca di affermazioni professionali negate in Patria.
All’argomento è stata dedicata una sessione dell’ultimo forum Ambrosetti di Cernobbio sulla base di una ricerca presentata dal chairman onorario Joe Del Raso e dal presidente del sodalizio Robert Allegrini. In pratica, avere a disposizione un’Italia all’estero addirittura più grande di quella residente nei confini nazionali può essere un formidabile fattore di sviluppo. Un’opportunità che se ben coltivata può assicurare molte soddisfazioni anche in campo economico dando maggiore sostanza e robustezza al nostro già forte e apprezzato Made in Italy. Naturalmente, occorre darsi da fare.
In che modo? Innanzitutto, migliorando l’immagine del nostro Paese mostrando i progressi realizzati in campi poco conosciuti come l’innovazione, la tecnologia e l’approccio al business centrato sulle persone. Una sorta di umanesimo degli affari di cui oggi si avverte un gran bisogno. E poi promuovendo con più convinzione lo studio della lingua attraverso i nostri Istituti di Cultura che già svolgono un buon lavoro, assieme alle sedi consolari, ma che sono ancora troppo pochi di fronte alla disseminazione compiuta dai concorrenti cinesi, tedeschi, francesi, inglesi.
Si potrebbe inoltre incentivare l’uso della doppia cittadinanza come strumento per stringere ulteriormente i legami con la popolazione fuori porta. Il suggerimento è considerare gli italiani all’estero come una vera e propria estensione della nostra identità. Per farlo con efficacia c’è però bisogno di ridurre i tempi delle pratiche burocratiche che da noi prendono quattro o cinque anni contro i sei mesi, per esempio, della Gran Bretagna. Non bisogna trascurare, ancora, il ruolo delle associazioni nate spontaneamente per rappresentare il fenomeno incoraggiando più feconde relazioni con le regioni e i luoghi di origine.
Una maggiore attenzione dei governi, centrale e locali, diventa quindi indispensabile per trasformare una vocazione che si basa sull’impegno volontario in una più solida alleanza che passa anche, e forse soprattutto, per nuove collaborazioni nella ricerca e nella formazione. Due elementi che vanno a comporre una colla potente per rimettere insieme i pezzi dislocati in ogni dove e dare un’anima comune al sentimento nazionale. È vero che cominciano ad attecchire molte iniziative su questo terreno, ma quello che manca è una consapevole compattezza che può fare la differenza.
Tutto questo, si argomenta, può dare all’Italia nuovi ed efficaci strumenti per affermarsi in un contesto internazionale fatto di competizione crescente e grandi trasformazioni sociali. Presentandoci e muovendoci come sistema possiamo esibire ed esercitare una maggiore forza contrattuale in un mondo interconnesso mentre si vanno ridefinendo alleanze ed aree d’interesse. L’italianità, dunque, come tratto distintivo di una civiltà – già ammirata e in parte emulata – e ancor di più come soluzione strategica per conservare e incrementare il ruolo di grande potenza industriale.
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