È passata nel silenzio generale, fatto salvo il lucido commento di Romano Prodi sul Messaggero, una recente intervista a Carlos Tavares, Amministratore delegato del Gruppo Stellantis, di Federico Fubini (Corriere della sera del 18 gennaio) sul futuro della produzione automobilistica del 4° gruppo automobilistico mondiale (FCA, Peugeot Citroen, Opel), che contiene valutazioni e giudizi che aiutano a comprendere non solo quale potrebbe essere l’impatto della transizione ecologica sostenibile sul settore dell’automotive italiano, ma anche le potenziali conseguenze negative delle politiche industriali che non fanno i conti con la realtà.
In questa intervista il Ceo di Stellantis, pur confermando la decisione strategica del gruppo di riconvertire l’intera gamma dei veicoli verso i motori elettrici, la considera una condizione obbligata da scelte politiche governative. Scelte che comportano investimenti onerosi per i produttori, i consumatori e per i bilanci statali in termini di incentivi per gli investimenti e per gli acquisti di automobili che hanno costi superiori del 50% rispetto a quelle dotate di motori termici. Il tutto in assenza di adeguati riscontri sull’effettiva capacità di ottenere vantaggi significativi in termini di risparmio delle emissioni CO2, se si tiene conto dell’inquinamento derivante dalla produzione/smaltimento delle batterie e di altre componenti dei nuovi veicoli, e della predisposizione di nuove reti di distribuzione. Giova evidenziare che queste valutazioni ricalcano quelle espresse qualche mese fa dal Ceo della Toyota volte a rimarcare le conseguenze ambientali e sociali dell’abbandono delle tecnologie più evolute dei motori termici in termini di: risparmio ambientale, accessibilità dei costi per i consumatori, salvaguardia dell’occupazione.
La riflessione prosegue con una valutazione del potenziale impatto delle scelte strategiche sulle unità produttive del Gruppo nel nostro territorio nazionale, considerate inadeguate per livelli di produttività decisamente inferiori a quelle collocate in altri Paesi vanificando i vantaggi del minor costo del lavoro italiano. Tavares prefigura l’esigenza di concentrare la produzione in maxi stabilimenti, confermata dalla decisione di costruirne due per la produzione delle nuove batterie elettriche in Germania e in Francia. Conferma che le scelte sul come, e sul dove, riorganizzare la produzione dipenderanno anche dagli orientamenti assunti dai Governi nazionali ( incentivi per gli investimenti , per i costi di produzione e per la vendita di automobili) e dalla possibilità di ottenere degli incrementi di produttività di almeno il 10% l’anno per contenere i costi delle auto elettriche, rispetto all’attuale media del 3% registrata nelle unità produttive del Gruppo.
In buona sostanza è il preannuncio di un bagno di sangue, in particolare per gli stabilimenti italiani, generato da una potenziale tempesta perfetta. Frutto della combinazione di scelte ambientali, di incentivi destinati ad accelerare l’abbandono delle produzioni esistenti, da una minore intensità occupazionale delle auto elettriche e dai livelli di produttività inferiori a quelli di altri Paesi.
Queste affermazioni tendono a mettere in discussione l’intera narrazione dei successi della gestione Marchionne, confortata a suo tempo da discreti successi di mercato. Ma la rilettura della storia della fusione tra la Fiat e la Chrysler è l’ultimo dei problemi. Per una serie di ragioni è l’intero comparto dell’automotive italiano che rischia di essere messo in discussione.
In questo ambito Stellantis, come unico gruppo di produzione finale di autoveicoli presente in Italia, rappresenta circa un terzo degli occupati dell’intero comparto che vengono stimati dall’Anfia, l’associazione di categoria delle aziende dell’automotive, in circa 250 mila sommando la produzione dei veicoli, delle componenti del prodotto finale, dei servizi di trasporto e di commercializzazione. Un volume di attività economiche destinato per il 65% alle esportazioni, con un saldo di 17 miliardi nella fase precedente Covid, tra i quali circa 6 miliardi derivanti dalla componentistica, superiore al deficit commerciale di 10 miliardi registrato sul versante della importazione di autoveicoli.
La stessa Anfia stima che la messa al bando dei motori a combustione interna, assunta dalle istituzioni dell’Ue, comporterà la perdita di oltre 70 mila posti di lavoro in Italia nel corso dell’attuale decennio. Occupati che solo in minima parte potranno essere sostituiti dalle professioni richieste nelle nuove filiere di produzione dei veicoli elettrici.
Queste evoluzioni sono destinate a rafforzare il ruolo europeo svolto dall’industria automobilistica tedesca, con un volume di occupati di quattro volte superiore a quella italiana, e della nazione cinese sul fronte della fornitura delle materie prime fondamentali per la produzione delle batterie elettriche. Indicatori che confermando la valenza geopolitica delle transizioni economiche attese nei prossimi anni, che sta generando tensioni economiche e politiche che possono assumere connotati drammatici anche sul versante delle relazioni internazionali.
Un’ulteriore occasione per riflettere sull’adeguatezza delle nostre politiche, a partire da quelle industriali, caratterizzate da un fondamentalismo ambientalista naif e da approcci ideologici privi di sostanza. Preoccupa in particolare l’impreparazione delle nostre classi dirigenti nel ponderare le conseguenze delle scelte che vengono assunte in ambito nazionale e sovranazionale sul nostro apparato produttivo. Un tema che sollecita in parallelo la necessità di interrogarci sulla nostra capacità di aumentare l’attrattività degli investimenti nel nostro territorio.
Una recente indagine dell’Istat conferma che le aziende multinazionali estere e italiane presenti nel nostro Paese, nell’insieme proprietarie del 2,1% del totale delle unità produttive, generano oltre il 18% del valore aggiunto nazionale, con livelli di produttività, di salari e di occupazione largamente superiori a quelli delle imprese autoctone. Nonostante questi numeri la nostra capacità di attrarre investimenti internazionali, soprattutto nei territori meno sviluppati, rimane molto al di sotto rispetto degli altri Paesi europei, alcuni dei quali hanno recuperato i ritardi territoriali grazie agli investimenti internazionali.
Le cause sono ampiamente documentate, e si identificano con alcuni dei deficit strutturali: la carenza delle infrastrutture, la scarsa dotazione risorse umane qualificate, le lungaggini burocratiche, l’illegalità diffusa, che il Pnrr si propone di rimediare. Buoni propositi ma ancora ben lontani dal mobilitare energie adeguate nella direzione desiderata. Lo dimostra il dibattito che ha preceduto il varo delle norme che introducono nuovi vincoli per le imprese che decidono di delocalizzare le produzioni delle unità produttive presenti in Italia. Del tutto inutili per lo scopo ma molto efficaci per scoraggiare le scelte di investimento nel nostro Paese. Per il semplice fatto che la stragrande parte delle scelte per i nuovi investimenti in ambito internazionale avviene in modo indipendente dalle chiusure delle attività in essere. Come sta avvenendo per la costruzione dei due maxi stabilimenti del gruppo Stellantis per la produzione delle nuove batterie elettriche.
Da queste vicende scaturiscono tre insegnamenti: quello già ricordato di supportare le scelte relative alla transizione ecologica e digitale delle produzioni con un’adeguata valutazione degli impatti economici e sociali; la necessità di supportare gli obiettivi finali, e le scelte di politica industriale, con una strategia di alleanze in grado di ridurre i livelli di dipendenza del nostro Paese sul versante degli approvvigionamenti di materie prime e delle tecnologie; e infine, ma non per ultimo, aumentare la capacità di attrarre investimenti internazionali in ogni ambito con un’adeguata mobilitazione delle istituzioni e degli attori economici e sociali.
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