Da una parte c’è il mondo agricolo, alle prese con rincari stellari delle materie prime. Il moltiplicarsi di eventi atmosferici avversi, che hanno decimato i raccolti; la crescita dei costi petroliferi, che ha fatto schizzare in alto le quotazioni dei carburanti con effetti di rincaro sui trasporti; la transizione verde, che richiede investimenti sempre più significativi sul campo e gli effetti delle chiusure imposte dalla emergenza pandemica hanno infatti portato a rialzi a doppia cifra nei prezzi di molti prodotti alimentari. Nel mirino ci sono soprattutto il grano (+41% a settembre su base annua, secondo l’indice dei prezzi alimentari della Fao), gli olii vegetali (+60%) e lo zucchero (+53,5%). Ma, alla prova dei numeri, l’onda lunga degli aumenti non risparmia nessuna categoria.



Dall’altra parte, c’è la distribuzione, refrattaria a raccogliere le richieste delle imprese di ritoccare i listini all’insù, spinta dalla paura che eventuali rincari, inesorabilmente destinati a toccare anche le tasche dei consumatori finali, possano pregiudicare il vento di ripresa che inizia a soffiare sull’economia italiana.



In mezzo, c’è l’industria alimentare, che si trova a dover affrontare queste due dinamiche contrapposte e divergenti. E che deve fare letteralmente i conti anche con un vero e proprio boom di altri costi, tra cui spiccano quelli energetici e quelli relativi alle materie prime utilizzate nel confezionamento dei prodotti. Una sfida non facile, che richiede una altrettanto non facile prova di reazione.

Le soluzioni percorribili

Tra le strategie che possono adottare le imprese per far fronte all’emergenza, c’è innanzitutto quella di migliorare l’organizzazione interna e i rapporti con fornitori e distribuzione. “L’attuale emergenza, perché di vera e propria emergenza si tratta – afferma Mattia Noberasco, Ceo dell’omonima azienda di famiglia -, va gestita facendo appello alla ricerca del massimo efficientamento lungo tutta la filiera. I margini di intervento ci sono, considerato che oggi il livello di dispersione di energie è piuttosto elevato. Occorre dunque uno sforzo comune, che consenta di lavorare su capitoli nevralgici, come ordini e trasporti, così da poter contenere i costi. Come pure buoni riscontri si possono attendere da un più largo utilizzo dell’agricoltura di precisione, che ha dato prova di essere in grado di generare risparmi davvero importanti”. Va detto però che si tratta pur sempre di interventi non risolutivi di fronte a uno scenario tanto complesso. “Per sua natura l’industria ricerca sempre efficienza nei propri processi produttivi – spiega Mario Piccialuti, direttore generale di Unione Italian Food -, ma davanti a fiammate che portano i costi a duplicare e perfino triplicare, questi correttivi rischiano di essere armi spuntate”.



Un aiuto potrebbe poi venire anche dalla capacità di valorizzare le filiere nazionali, quindi a corto raggio. Un’opzione indicata a chiare lettere dal presidente di Coldiretti, Ettore Prandini: “Con i prezzi mondiali dei prodotti alimentari che hanno fatto segnare un aumento del 32% rispetto allo scorso anno, per effetto delle tensioni generate dall’emergenza Covid, l’Unione Europea e l’Italia devono puntare all’autosufficienza alimentare, così da stabilizzare le quotazioni e garantirsi adeguati approvvigionamenti per combattere la povertà e la fame che sta colpendo anche il vecchio continente”.
Un appello che suona come la conferma di una direzione intrapresa già da alcuni anni dalle imprese alimentari italiane, che in misura sempre più numerosa hanno scelto di ricorrere a filiere esclusivamente Made in Italy.

E lo hanno fatto mettendo in campo investimenti più che significativi. La lista di chi ha imboccato questa strada è piuttosto nutrita e comprende nomi eccellenti della nostra food industry. Ferrero, per esempio, ha lanciato nel 2018 il “Progetto nocciola Italia”, un piano agroindustriale che prevede un aumento entro il 2025 di 20 mila ettari di nuove piantagioni di noccioleto da aggiungere agli oltre 70 mila ettari già presenti, con l’obiettivo di utilizzare una produzione corilicola 100% italiana. Il programma mira dunque a ridurre la quota acquistata all’estero e accorciare la catena di approvvigionamento, riducendo su larga scala la distanza tra il raccolto della Turchia, che raggiunge le 710 mila tonnellate, e quello dell’Italia che, pur essendo il secondo produttore di nocciole al mondo, si ferma a quota 165 mila. Barilla fa poi largamente ricorso proprio in Italia alla “Carta del Mulino”, un progetto di agricoltura sostenibile volto a incentivare la crescita della filiera del grano tenero.

Al disciplinare hanno già aderito migliaia di imprese agricole, stoccatori e mugnai e, in poco più di 24 mesi, l’iniziativa – partita con il biscotto Buongrano – è stata estesa a oltre 100 prodotti Mulino Bianco, fino a comprendere tutti i biscotti, le torte, gran parte dei pani e delle merende della marca. E ancora, Noberasco ha scommesso sul rilancio di un comparto oggi quasi interamente soddisfatto dalla produzione estera, quello delle arachidi, attraverso un accordo quinquennale stretto nel 2020 con Bonifiche Ferraresi, che impegna le due società a sostenere e consolidare entro la fine del 2021 la produzione 100% italiana su una superficie di 200 ettari, nei territori dell’Emilia-Romagna, occupandosi poi della successiva commercializzazione.

E il progetto promette di essere solo il primo passo di un processo più ampio: dopo le arachidi, oggi tocca infatti anche a mandorle, fichi, mele e nocciole. Segno che l’esperimento ha funzionato. “I prodotti che provengono dalle filiere Made in Italy – conferma Noberasco – sono gli unici sui quali al momento non abbiamo dovuto intervenire con aumenti di listino. Certo, va detto che si tratta di referenze, premium, che quindi si posizionano nella parte alta della gamma dei prezzi, ma va detto anche che la filiera corta ci ha aiutato a contenere i costi”. Il che suggerisce come, paradossalmente, da situazioni negative possano scaturire anche riflessi positivi: impattando soprattutto sui prodotti provenienti dall’estero, infatti, l’aumento delle materie prime si candida a generare una riduzione del gap di prezzo che penalizza le referenze italiane. E quindi, implicitamente, spinge verso un ritorno alle coltivazioni nazionali.

Detto questo, occorre essere realistici: la formula non può trovare sempre applicazione. “Il ricorso alle filiere Made in Italy – commenta Piccialuti – rappresenta senza dubbio un elemento di valore, che consente non solo di limitare i costi di logistica e di essere parzialmente meno esposti alla volatilità dei prezzi delle materie prime, ma anche e soprattutto di salvaguardare la qualità della produzione. Tuttavia, va detto con chiarezza che in molti casi l’Italia è parecchio lontana dall’autosufficienza produttiva. Le nostre imprese hanno bisogno di quantitativi di materie prime del tutto superiori a quelli che il Paese è ragionevolmente in grado di mettere a disposizione. Senza contare che anche uno strumento virtuoso come quello dei Contratti di filiera, che garantisce all’industria una stabilità di fornitura a fronte di una stabilità del prezzo pattuito, segna il passo difronte alle attuali impennate delle quotazioni”.

Il passo (obbligato) della concertazione

Quelli appena descritti rappresentano quindi interventi praticabili e auspicabili, che però non sembrano in grado di agire in quei tempi stretti imposti da una fiammata dei prezzi tanto repentina quanto forte e globale. Per gettare acqua sul fuoco che sta infiammando i mercati, l’unica soluzione praticabile al momento pare essere un fattivo confronto tra le parti. E la prova viene dalla lettera siglata da Centromarca e IBC – Associazione Industrie Beni di Consumo – per la parte industriale – e da ANCC-Coop, ANCD-Conad e Federdistribuzione, riunite in ADM – Associazione della Distribuzione Moderna – per la parte distributiva -.

Mittenti della missiva sono la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il MISE, il MEF, il MIPAAF e i Presidenti delle Commissioni competenti di Camera e Senato. Il documento esprime “preoccupazione per i rilevanti rincari registrati da beni energetici e materie prime, che si traducono in sensibili incrementi dei costi per le imprese, che interessano merci grezze, processi produttivi, logistica e attività di commercializzazione”. Da qui l’appello congiunto: “Pur ribadendo l’impegno ad agire sui livelli di produttività in tutte le fasi dei processi industriali e distributivi, le Associazioni ritengono indispensabile l’attivazione di un tavolo di filiera con le Istituzioni per individuare forme concrete d’intervento idonee a mitigare l’effetto dei rincari: misure fiscali, provvedimenti per la salvaguardia della competitività delle imprese e del potere d’acquisto delle famiglie, sostegno alla dinamica della domanda interna, elemento fondamentale per la ripresa del Paese”.

Una proposta concreta, dunque, che si allinea peraltro con il sentiment complessivo del mercato. A confermarlo, sono più voci. “Il momento – osserva la Presidente di Federvini, Micaela Pallini – è molto complesso, dato il rincaro delle materie prime e dell’energia, con gli impatti che si vanno a scaricare sui prezzi. Le parti devono dunque sedersi e dialogare apertamente perché le relazioni commerciali – tra produttori e GDO – abbiano come punto di incontro la tutela di un mercato sano”.

La prospettiva di un dialogo aperto piace anche a Federalimentare: “Credo che il tavolo debba essere fatto – sostiene il Presidente, Ivano Vacondio -: sarà utile a smussare gli angoli e rendere più fluido il confronto. A patto però che non si cada nel rischio di cercare un capro espiatorio. Quella che ci troviamo ad affrontare, infatti, non è una bolla speculativa, ma un autentico tsunami, una tempesta perfetta che non tocca un solo settore, ma riguarda l’intero sistema produttivo – i rialzi vanno dal petrolio all’alluminio, dai container alla cellulosa – e soprattutto presenta una portata mondiale, che non risparmia nessun Paese. Una portata che suggerirebbe la necessità spostare il dialogo a livello internazionale. Affrontare la crisi in termini globali potrebbe infatti risultare un’arma vincente per raggiungere quello che, in ultima analisi, deve essere l’obiettivo condiviso dalle parti invitate al confronto: tutelare il consumatore, che è il vero azionista di tutti i player della filiera”.

E una valutazione positiva arriva anche da Unione Italiana Food: “Il coinvolgimento delle parti e delle istituzioni – dice Piccialuti – è del tutto condivisibile. Occorre però essere consapevoli che non si tratta di una panacea. Ognuno metterà sul tappeto i propri conti e, al netto di azioni governative che possano intervenire con sgravi diretti o indiretti, l’orizzonte verso cui è plausibile che ci si possa dirigere sarà quello di una equa redistribuzione dei maggiori costi su tutti i componenti della filiera. Ognuno insomma dovrà fare la sua parte”.

Soffre anche la logistica

All’appello sono quindi chiamati a rispondere il mondo agricolo, la produzione, la distribuzione e i consumatori. Ma non solo. Nel confronto che si va prospettando, andrà infatti tenuto conto anche di un altro attore che rappresenta un sostanziale collante tra i player della filiera: la logistica. Un comparto chiamato oggi ad affrontare importanti nodi critici, a loro volta fatalmente destinati a riverberarsi (anche) sul mondo alimentare. “La logistica – spiega Renzo Sartori, presidente di Number1 e Vice Presidente Assologistica – vive oggi una fase di grande transizione: da fornitore di servizi è diventata a tutti gli effetti un fattore strategico nell’organizzazione delle imprese e nel mondo della distribuzione. Il vecchio paradigma che vede in chi si occupa di logistica un gestore di magazzini o un trasportatore, è infatti totalmente superato. Nel mercato attuale, contraddistinto da un alto tasso di complessità, dal mondo della logistica ci si attende una capacità di gestire complessità, fornendo livelli di servizio che garantiscano ai committenti di essere competitivi nei loro mercati.

Si pensi alla tendenza di aziende e retail ad avere a disposizione scorte minime e a contare su rifornimenti continui in funzione dell’andamento della domanda, con la conseguente necessità per gli operatori logistici di attrezzare magazzini sempre più flessibili dove domina la tecnologia. E ancora, si pensi alle garanzie richieste dai committenti sul buon esito dei trasporti, come pure alla crescente domanda di specializzazione dei servizi in funzione delle merci trattate. Il contesto in cui si muove il settore è cambiato e ne abbiamo avuto palese conferma durante l’emergenza sanitaria”. In questo scenario, la logistica è stata messa sotto forte pressione. “Durante la fase più dura dei lockdown – spiega Sartori – solo gli operatori più strutturati sono riusciti a rispondere alla domanda del mercato. Tante imprese hanno purtroppo dovuto chiudere. E questo perché la capacità di resilienza è diventata strategica e la specializzazione un punto di forza”. Ma non solo.

A rendere ancora più complesso il quadro c’è infatti anche la spinosa questione dei costi. “Siamo di fronte a una situazione quasi paradossale – sostiene Sartori -: agli operatori si chiede di ampliare il raggio di azione delle prestazioni erogate e di migliorarne lo standard qualitativo, ma a queste domande spesso non corrisponde un congruo riconoscimento di valore e di tariffe. Il risultato è l’erosione della marginalità”. Una spirale che rischia di diventare esplosiva. E questo anche alla luce della situazione contingente. “Se è vero che il sistema logistico deve diventare camaleontico – osserva Sartori -, vero è anche che l’attuale situazione sta mettendo alla prova tutto il comparto: si devono fare i conti con la mancanza all’appello di oltre 17.000 autisti e con l’aumento vertiginoso dei prezzi del gasolio, con l’insufficienza di materie prime e con un costo del lavoro in continuo aumento. Senza dimenticare che davanti a noi si prospetta una transizione ecologica destinata a imporre nuovi e significativi cambiamenti, e quindi investimenti, anche al comparto logistico. Investimenti che, al momento, non vengono calcolati nella formulazione dei costi riconosciuti dai committenti”.

E non è ancora tutto. Perché ci sono anche altre variabili da considerare. “È necessario – afferma Pallini – rendere più efficienti delle infrastrutture che devono essere adattate a un assetto orografico non semplice, date le caratteristiche multiformi del nostro Paese. Senza un intervento capace di migliorare strade, reti ferroviarie e collegamenti, che restano disomogenei a seconda dei territori, l’Italia rimane indietro perché mancano i mezzi essenziali per incentivare trasporti veloci e sostenibili”.

All’orizzonte, però, potrebbe intravvedersi una buona notizia. Che strizza l’occhio alla sensibilità green. “La possibilità di attingere alle risorse del PNRR – continua Pallini – rappresenta un’occasione per migliorare la logistica e farlo in un’ottica di transizione ecologica. Sarebbe bene che l’Italia sfruttasse al massimo questa occasione per migliorare i collegamenti su rotaia interni e verso l’Europa, per ammodernare la mobilità del sistema portuale, così da rendere la movimentazione delle merci più rapida, a tutto beneficio delle aziende e della competitività del sistema Paese. E in questo ambito diventa importantissimo rafforzare velocemente la rete digitale, per migliorare comunicazioni e gestione degli spostamenti”. Le premesse insomma ci sono. Ora si tratta di passare dalle parole ai fatti.

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