Fino a ieri eravamo convinti che, in fatto di cibo, il gusto non si sposasse molto con la qualità e neppure la velocità di consumo con la salubrità. Poi è cambiato il mondo. E la sfida di offrire prodotti che fossero insieme buoni, sani, veloci e di qualità è diventata prioritaria per ogni industria di marca intenzionata a intercettare al meglio la nuova domanda dei consumatori. Una sfida che, in casa Pedon, si sono allenati a vincere da tempi non sospetti. Non stupisce quindi che l’azienda veneta, leader nella produzione di legumi, cereali e semi, e oggi focalizzata su prodotti ad alto contenuto di servizio, tanto da aver inventato i “legumi fatti a snack”, abbia chiuso un anno difficile come il 2020 con una crescita dell’11,2%, arrivando a fatturare 98 milioni di euro. Un successo che nasce proprio dalla capacità di soddisfare l’esigenza di un consumo sano, sicuro e buono: abbiamo incontrato Loris Pedon, Amministratore Delegato del gruppo di famiglia, per allargare ulteriormente la fotografia di quello che oggi si aspettano i consumatori da un’industria alimentare di qualità.
“Per sapere che cosa vogliono le nuove generazioni in campo alimentare bisogna innanzitutto averle in azienda – risponde Pedon -. Per questo abbiamo introdotto negli ultimi anni molti giovani, che ci hanno aiutati a intercettare nuovi trend e a rispondere con prodotti innovativi”.
Per esempio?
Partendo dalla nostra solida conoscenza delle materie prime (legumi, cereali e semi) e delle loro filiere, siamo riusciti a far evolvere i nostri prodotti verso nuove destinazioni d’uso. Abbiamo utilizzato i legumi per proporre degli snack, ma anche zuppe e contorni, piatti che rispondono all’esigenza di avere un pasto veloce e sano, senza rinunciare al gusto.
All’estero saranno molto apprezzati.
All’estero è normale usare legumi e cereali come arricchitori, così come consumare piatti pronti, ma anche concedersi durante la giornata diversi momenti per fare uno spuntino e magari concepire come snack anche pranzi e cene. Non a caso all’estero i nostri prodotti stanno crescendo moltissimo: realizziamo in circa 30 Paesi (soprattutto Canada, Usa e Messico) il 40% del nostro fatturato e lo scorso anno abbiamo incrementato l’export dell’85%.
In Italia siamo più tradizionalisti?
Il consumatore italiano ha una tradizione culinaria più solida, che da un lato è un bene, perché significa avere un gusto allenato alla qualità, dall’altro lo rende più rigido nel tener distinti sia i tradizionali momenti di consumo (come colazione, pranzo e cena), sia certe categorie merceologiche come pasta, riso e legumi. Ha più resistenza a concepire l’idea del piatto unico, che invece all’estero piace tanto, così come quella della pasta di legumi, che per un americano è assolutamente normale. Ecco perché i mercati esteri sono più frizzanti e aperti all’innovazione. In Italia bisogna fare un percorso più graduale per abituare i consumatori a nuove proposte.
Ci state riuscendo?
A giudicare da come stanno accogliendo la nostra offerta direi di sì. Sono in molti ormai a condividere l’idea che consumare poco cibo, di qualità, con frequenza e bevendo molta acqua sia un viatico per il benessere e la forma fisica. I nostri prodotti sono gustosi, facilmente fruibili e molto ricchi di valori nutrizionali.
Sul fronte della sostenibilità, che plus garantiscono?
Intanto, dal punto di vista ambientale, il legume è un vegetale azoto fissatore, quindi assorbe poca acqua e restituisce un terreno molto fertile. Rappresenta una coltura sostenibile per definizione. Ma il nostro concetto di sostenibilità va ben oltre la dimensione ambientale. Riguarda il modo di concepire e valorizzare le filiere, rispettandone la vocazione.
Che cosa significa, in pratica?
Significa mantenere la filiera corta solo dove ha senso farlo. Nell’orzo e nel farro, per esempio: dal punto di vista varietale, la qualità italiana è la migliore del mondo e noi siamo passati dal ritirare il 10% del farro prodotto in Italia a prenderne il 40%. Se oggi il farro italiano è così conosciuto negli Usa è anche grazie alle nostre esportazioni. La nostra filosofia è spingere l’acceleratore sulle produzioni locali quando c’è una forte vocazione del terreno e dell’agricoltore.
Altrimenti?
Altrimenti è meglio approvvigionarsi altrove. Quando si forza una vocazione naturale si va poco lontano e, a mio avviso, non si è davvero sostenibili. Faccio l’esempio dei cannellini: per questo tipo di coltura l’Italia è poco vocata ed è sbagliato insistere a farla. Se i migliori a produrre cannellini sono gli argentini, lasciamo che li producano loro, con maggiore soddisfazione per tutti. È una visione distorta della sostenibilità quella che porta a considerare che tutto debba essere prodotto a casa propria o che tutto debba essere biologico. La monodimensionalità non è oggi una risposta adeguata (e neanche sostenibile) a un mondo sempre più complesso. Essere sostenibili, al contrario, vuol dire valorizzare la diversità. L’agricoltura stessa ha in sé il concetto di biodiversità, per questo noi siamo orgogliosi, come brand italiano, di non fare dell’italianità e del biologico il mantra di tutto.
Avete anche lanciato un programma per riutilizzare gli scarti di produzione, nell’ottica di promuovere un’economia circolare. Di cosa si tratta?
Per essere coerenti con una produzione di per sé sostenibile, ci siamo interrogati sul senso di destinare alla zootecnia i nostri scarti di produzione (quindi andando ad alimentare un ciclo industriale molto inquinante). Abbiamo quindi lavorato alla messa a punto di un processo innovativo, che consente di trasformare gli scarti delle leguminose in carta. Ne abbiamo ricavato tutto il materiale destinato alla comunicazione (dai biglietti da visita al materiale pubblicitario sul punto di vendita), ma anche il pack di alcune nostre linee di punta, come gli astucci della lenticchia “Pedina” o dei cereali precotti “C’è di buono”. Tra l’altro abbiamo scoperto che questa carta ha anche il grande plus di essere poco rifrangente, quindi sugli scaffali della grande distribuzione non ha quel fastidioso effetto lucido, ma è molto elegante nella sua opacità. Si fa notare. Che per un prodotto a scaffale non è poco!
Siamo ancora in piena pandemia: qual è la sua previsione sul futuro che ci aspetta?
Nonostante tutto, resto ottimista. Rispetto alla crisi finanziaria del 2008 che ha devastato i mercati, quella causata dalla pandemia non ha prodotto gli stessi danni economici, anche se, avendo inciso profondamente nell’economia reale, è percepita come ancora più impattante. Credo però si tratti solo di un errore di percezione. È vero che la percezione determina la fiducia, che a sua volta è benzina per i consumi, ma penso che, non appena torneremo alla normalità, la voglia di ricominciare a vivere sarà più forte di ogni altro sentimento. Questo non toglie che il paragone tra le due crisi debba far riflettere: fanno più danni tre colossi finanziari in bancarotta che il blocco dell’economia reale nel mondo intero. Dovremmo interrogarci sul ruolo della finanza oggi. Sui nostri modelli di business e di crescita. Il lato positivo della terribile emergenza sanitaria che stiamo ancora vivendo è proprio che ci ha obbligati a riflettere su queste cose. Speriamo ci serva a non ripetere gli errori fatti e a incanalare lo sviluppo futuro su binari più sostenibili.
(Maria Cristina Alfieri)
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