Giovedì alcune dichiarazioni del ministro dell’Economia tedesco sono finite sui principali organi di informazione finanziaria. Habeck ha dichiarato che “alcuni Paesi, inclusi quelli amici, in alcuni casi ottengono prezzi astronomici per il gas”. Il ministro ha aggiunto chiarendo a quale Paese si riferisse: “Gli Stati Uniti ci hanno contattato quando i prezzi del petrolio sono saliti e per questo si è fatto ricorso alle riserve europee. Penso che questa solidarietà sarebbe necessaria anche per abbassare i prezzi del gas”. Il gas americano non arriva in Europa gratis, ma a prezzi di mercato che spesso riflettono, oltre a una situazione drammatica nel mercato fisico, anche la speculazione. L’Europa procede verso razionamenti e prezzi energetici incompatibili con la sopravvivenza del proprio sistema industriale; in questo “processo” la Germania sembra sentirsi sola e abbandonata dagli alleati.
Ieri il prezzo del petrolio è salito di quasi il 5% nonostante la pessima giornata di Wall Street e i timori crescenti di recessione che ieri si sono manifestati con due “allarmi sui profitti” di produttori di chip; è la domanda globale che incontra un vuoto d’aria. La notizia degli ultimi giorni è il taglio di due milioni di barili di produzione da parte dell'”Opec plus”, che include anche la Russia. L’organizzazione è stata accusata di insensibilità per le sorti dell’economia globale e i principali Paesi medio-orientali di aver fiancheggiato la Russia che sei mesi fa ha invaso l’Ucraina. Eppure negli ultimi sei mesi il prezzo del greggio è sceso dopo un rilascio di riserve strategiche americane che ha portato le scorte ai minimi degli ultimi quattro decenni. Una mossa che non è piaciuta ai produttori.
Nelle ultime settimane si è parlato di un tetto al prezzo del petrolio russo. Un altro intervento che non può entusiasmare i produttori. Quest’ultima ipotesi, discussa alla luce del sole da settimane, probabilmente ha spinto i produttori a fare sistema, a supportare la Russia e a reagire con un taglio della produzione. I rialzi di questi ultimi giorni, nonostante la recessione, segnalano che per il mercato sono i produttori ad avere il coltello dalla parte del manico e non i compratori.
Il problema è politico e negli Stati Uniti la sensibilità sul tema è estrema sia perché manca un mese alle elezioni di mid-term, sia perché l’americano medio, con sano buon senso, non capisce perché dovrebbe soffrire per una guerra lontana diverse migliaia di chilometri. L’America profonda non è quella che si vede nei film ambientati a New York, ma quella degli Stati in cui la maggioranza della popolazione non ha mai avuto un passaporto e morirà senza averne mai visto uno. È per questo che nonostante le “frizioni politiche” l’America pensa di togliere le sanzioni al Venezuela, che per la cronaca sarebbe un Paese fondatore dell’Opec. Non è chiaro quale soluzione possa offrire lo Stato sudamericano dopo anni di sanzioni che hanno devastato l’industria petrolifera.
Negli ultimi giorni si è aperto un altro fonte. Il 4 ottobre Bloomberg ha pubblicato un rumour interessante: la Casa Bianca avrebbe chiesto al Dipartimento dell’energia di analizzare i possibili impatti di un blocco delle esportazioni di benzina, diesel e altri prodotti raffinati; un’indicazione, scrive Bloomberg, che “l’idea stia guadagnando consensi in alcune frange dell’amministrazione Biden”. Nello stesso giorno Reuters ha sostenuto che la Casa Bianca avrebbe escluso un blocco delle esportazioni di gas. Una smentita che conferma a che punto sia il dibattito in America.
Se queste sono le ipotesi che circolano con il petrolio sotto i 100 dollari al barile dopo essere stato per mesi sopra è lecito chiedersi quanto potrà resistere la politica americana alle pressioni se il problema dovesse peggiorare. La frattura con i Paesi produttori è ufficialmente ai massimi da decenni; l’Europa ha deciso di sanzionare il suo principale fornitore. L’incremento del costo dei componenti e i proclami a abbandonare gli idrocarburi che si susseguono nonostante un’emergenza che sta distruggendo lo stile di vita di centinaia di milioni di europei non creano un clima favorevole a investire per motivi ovvi. Se la politica mi dice che sono obsoleto tanto vale essere disciplinato e fare profitti fin tanto che dura.
L’Europa non produce petrolio come l’alleato americano, è un importatore netto e tutto il piano energetico europeo ruota intorno alle rinnovabili. Chi ha a cuore il bene degli europei oggi non può che essere molto preoccupato sia per la situazione che per l’isolamento. A proposito di transizione. Il nuovo Presidente della chimica tedesca ha spiegato due giorni fa che per raggiungere gli obiettivi di produzione eolica del ministro dell’Economia tedesco servirebbe l’equivalente di acciaio di cinque torri Eiffel al giorno per i prossimi 8 anni. Un bel modo per dire che il piano tedesco è inattuabile tanto più che le acciaierie in Europa chiudono per mancanza di energia. Conclusione del Presidente: la Germania rischia di diventare un museo dell’industria.
Da quello che si è letto questa settimana nessuno, né tra i nemici né tra gli amici, sembra intenzionato a risolvere i problemi europei. La transizione europea, il mito con cui si anestetizzano gli effetti della crisi, intanto fa la fortuna dei nostri, sempre più esigui fornitori, che ci possono taglieggiare a piacimento.
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