Il rischio acuto di infarto è “scritto” nel Dna. Lo ha dimostrato uno studio italiano pubblicato sulla prestigiosa rivista Plos One all’interno del quale si è dato conto della scoperta di un nuovo e importante marcatore genetico. Lo studio pilota, come spiegato dall’ANSA, consente di individuare precocemente le persone ad alto rischio e su cui intervenire con urgenza. Un passo avanti potenzialmente decisivo se si pensa che la malattia coronarica e la sua complicanza principale, l’infarto del miocardio, uccide ogni anno circa 70.000 persone in Italia ed è una delle principali cause di morte e disabilità. Lo studio coordinato da Giuseppe Novelli, rettore e direttore del Laboratorio di Genetica Medica del Policlinico di Tor Vergata, e da Francesco Romeo, direttore della Cardiologia dell’Università di Tor Vergata ha l’obiettivo di comprendere la correlazione tra quel mix fra stili di vita ed ereditarietà che spesso e volentieri inficia negativamente su una coronopatia sottostante. I ricercatori hanno spiegato di aver coinvolto nello studio pazienti con malattia coronarica stabile (cioè senza infarto) e pazienti con malattia coronarica instabile (ovvero con infarto) al fine di identificare le varianti molecolari che funzionano come biomarcatori, ovvero quelli che consentono di individuare chi potrebbe andare incontro ad un evento acuto in un breve tempo.



LO STUDIO E LA SCOPERTA

Lo studio che consente di individuare il rischio acuto di infarto grazie al Dna ha messo sotto esame l’espressione dei ‘piccoli messaggeri’ di RNA non codificante circolante nel sangue (microRNA). Queste molecole, spiega l’ANSA, agiscono da interruttori e hanno decisivi ruoli di regolazione dell’espressione genica: sono implicati nel controllo di processi biologici come la proliferazione cellulare, il metabolismo dei grassi e lo sviluppo di tumori. L’analisi molecolare ha consentito di identificare, tra un pannello di 84 diversi microRNA espressi nella circolazione sanguigna, il comportamento ‘anomalo’ di miR-423, il quale risultava avere dei livelli molto bassi in pazienti con malattia coronarica subito dopo l’infarto rispetto a chi aveva la malattia coronarica stabile. I ricercatori hanno spiegato come questo dato indichi che la sua espressione è specifica ed indicativa dell’evento acuto. Il professor Novelli ha spiegato:”Non è il primo biomarcatore dell’infarto finora identificato ma è il più importante. Consente, infatti, di individuare in un gruppo di soggetti a rischio, quelli a rischio più elevato e che necessitano di interventi terapeutici e preventivi immediati. Pertanto apre le porte alla medicina personalizzata o di precisione”.

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