C’era una volta l’inflazione che tanto ha danneggiato il potere d’acquisto delle famiglie e preoccupato i decisori della politica economica, quella monetaria in particolare. Ma ora l’inflazione non c’è più e se la politica monetaria non verrà rapidamente e drasticamente mutata di segno il rischio è che i suoi effetti restrittivi ritardati portino le economie dell’eurozona addirittura in deflazione, oltre che in recessione.



I dati comunicati dall’Istat e relativi alle stime preliminari dei prezzi al consumo dell’Italia nel mese di novembre confermano ampiamente questa analisi, peraltro ampiamente descritta in numerosi interventi nei mesi scorsi. Infatti, nel mese che si è appena concluso l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC), che a differenza di quello armonizzato europeo include anche i tabacchi, ha registrato una diminuzione dello 0,4% rispetto al mese precedente, la seconda consecutiva dopo il -0,2% di ottobre.



A novembre 2022 vi era stato invece un incremento mensile dello 0,5% il quale, essendo trascorsi dodici mesi, fuoriesce dal calcolo del tasso tendenziale e, congiuntamente alla riduzione dello 0,4%, permette un abbassamento del medesimo di nove decimi di punto. Esso scende in conseguenza a un ridottissimo 0,8%, più che dimezzandosi rispetto all’1,7% del mese di ottobre. Un valore così basso non si aveva dal marzo del 2021, ben prima del manifestarsi di ogni tensione sui prezzi dei beni energetici importati.

Il nuovo calo del tasso di inflazione è stato reso possibile ancora una volta dal favorevole andamento dei prezzi dei beni energetici i quali a novembre hanno registrato una netta flessione sul piano congiunturale: -3,8% per gli energetici non regolamentati e -2,4% per quelli regolamentati, valori che portano i rispettivi tassi tendenziali al -22,5% e al -36%. Complessivamente considerati i beni energetici, che pesano per il 10% nei consumi delle famiglie, costavano in novembre il 3,6% in meno rispetto a ottobre e il 24,5% in meno rispetto a novembre dello scorso anno.



Con quanto hanno risparmiato le famiglie sulla spesa energetica hanno potuto finanziare i maggiori costi per la spesa alimentare, che pesa per il 18% sul loro bilancio, l’unico comparto a registrare ancora incrementi non trascurabili. Infatti, in novembre i prezzi degli alimentari sono cresciuti dello 0,7% rispetto a ottobre e del 6,1% rispetto allo stesso mese dello scorso anno.

Al netto degli energetici e degli alimentari freschi, i restanti comparti hanno visto un rallentamento ulteriore del tendenziale, la cosiddetta “inflazione di fondo” al 3,6% dal 4,2% precedente. Al loro interno i beni industriali diversi dagli energetici e dagli alimentari lavorati hanno visto una diminuzione nel mese dello 0,1% mentre i servizi complessivamente considerati dello 0,5%. Il tendenziale dei primi si è in conseguenza ridotto dal 2,9% al 2,6% mentre quello dei secondi dal 4,1% al 3,7%.

Ricordiamo che i beni non energetici e non alimentari pesano per oltre il 27% nei consumi delle famiglie, mentre i servizi per il 42%, avvicinandosi nel loro complesso al 70%, che diviene l’80% aggiungendovi gli energetici e l’82% coi tabacchi, i cui prezzi sono rimasti invariati. In sostanza oltre quattro quinti del paniere dei consumi delle famiglie sta registrando prezzi in diminuzione mentre meno di un quinto prezzi in aumento.

Questo fenomeno non si può ancora chiamare deflazione, trattandosi di una fase di rientro da precedenti robusti incrementi dei prezzi, ma potrebbe divenirlo qualora alle tendenze spontanee dei medesimi dovessero sommarsi gli effetti ritardati di una politica monetaria restrittiva che ha visto nell’ultimo anno e mezzo il tasso principale salire dallo zero per cento, al quale era rimasto ancorato per lunghissimo tempo, al quattro e mezzo per cento. Quando al marzo del 2021 il tendenziale dell’inflazione italiana era allo 0,8% il tasso di riferimento della Bce era ancora allo zero e lì sarebbe rimasto per altri cinque trimestri. Ora che il tendenziale dell’inflazione è ritornato allo stesso livello il tasso è invece al 4,5%, evidente segno di qualcosa che non sta funzionando a livello dei decisori della politica monetaria. E i cui effetti dobbiamo attenderci sulla crescita economica, misurata dai prossimi dati sull’andamento del Pil reale.

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