La seconda metà del 2021 non ha visto solo un’apprezzabile crescita economica, che ha permesso di recuperare quasi del tutto il Pil perduto con la pandemia, ma ha fatto riemergere un fenomeno macroeconomico che era quasi completamente scomparso nel ventennio trascorso dal debutto della moneta unica europea: l’aumento generalizzato dei prezzi, più noto sotto il nome di inflazione. L’ultima volta in cui se ne era parlato in maniera problematica eravamo ancora negli anni ’90, all’incirca alla metà di quel decennio. Noi italiani facevamo ancora la spesa pagando con le vecchie lire e la cosiddetta Seconda repubblica aveva appena debuttato sui nostri schermi.



Ai tempi l’inflazione, già molto ridotta rispetto ai picchi degli anni ’70 e ’80 delle due crisi petrolifere, non si era ancora allineata ai valori degli altri maggiori Paesi europei e restava su di essa un differenziale rispetto ai Paesi più virtuosi che occorreva comprimere per adempiere a uno dei requisiti del Trattato di Maastricht e ottenere l’ammissione alla moneta unica europea. L’obiettivo fu conseguito poco dopo la metà di quel decennio e una volta arrivato l’euro di inflazione non si parlò sostanzialmente più. Anzi, dato che gli ultimi due decenni hanno visto una crisi recessiva dopo l’altra, il rischio che sembrava potersi palesare sui prezzi era in realtà quello opposto della deflazione, della caduta possibile del livello dei prezzi trainata dalla riduzione della domanda aggregata. In realtà né la recessione da fattori internazionali del 2008-09, né quella da politiche recessive interne del 2011-13, né, infine, quella da Covid del 2020 hanno prodotto una riduzione generalizzata del livello dei prezzi anche se in specifici momenti la componente più sensibile agli shock e più volatile, quella dei beni energetici, ha potuto far premettere il segno meno alle variazioni dell’intero indice generale.



Così è potuto accadere che i prezzi rimanessero stabili nel lungo periodo, con un tasso medio di crescita annuo che nel ventennio è rimasto al di sotto di quel valore soglia del 2% annuo che non solo è considerato fisiologico, ma è anche solitamente auspicato dalle politiche delle Banche centrali. Questo scenario di assoluta stabilità dei prezzi è improvvisamente mutato con la scorsa estate e i mesi più recenti ci hanno portato a tassi di crescita su base annua sensibilmente superiori a quel valore, suscitando interrogativi a cui non eravamo più abituati:

1) Si tratta di un fenomeno transitorio o destinato a durare?



2) Nella seconda ipotesi l’inflazione è dunque destinata a rappresentare un nuovo problema macroeconomico?

3) Avremo di nuovo spirali prezzi-salari come quelle che hanno afflitto la nostra economia per oltre un ventennio dopo la prima crisi petrolifera?

Alla prima domanda si è data inizialmente una risposta tranquillizzante, anche da parte delle figure apicali delle Banche centrali, tendente da un lato a circoscrivere il fenomeno al comparto specifico dei beni energetici e dall’altro a identificare la causa in un più lento aggiustamento dal lato dell’offerta ai livelli di produzione richiesti da una ripresa post-Covid più rapida del previsto dal lato della domanda. In sostanza, durante la fase di caduta da lockdown l’offerta di beni si sarebbe rapidamente adeguata alla drastica riduzione della domanda, mentre nella fase di ripresa sarebbe rimasta indietro, generando in conseguenza aggiustamenti anche dal lato dei prezzi.

Col passare dei mesi, e restando i numeri sui tassi di variazione con valori elevati, questa interpretazione sembra reggere di meno e viene sicuramente creduta di meno. Dunque l’inflazione è destinata a restare d’attualità almeno per un po’, anche se possiamo escludere lo scenario più pessimista di una nuova spirale prezzi-salari, in sostanza a causa della mancanza di fattori in grado di far riprendere quota ai livelli salariali.

Nella vecchia esperienza italiana, iniziata negli anni ’70, vi era l’importante meccanismo di indicizzazione dei salari ai prezzi della scala mobile e un rilevante potere di mercato delle organizzazioni sindacali, reso possibile da condizioni del mercato del lavoro per esse molto favorevoli che portarono all’autunno caldo ben prima che si manifestasse la prima crisi petrolifera. Niente di tutto questo è ora presente: la scala mobile fu dapprima depontenziata a metà degli anni ’80 e poi definitivamente accantonata dalle politiche dei redditi e degli accordi sindacali durante il Governo Ciampi del 1993; il mercato del lavoro langue, con elevata disoccupazione, sottoccupazione e precarietà sia dal punto della durata dei contratti, con quasi tutti quelli di nuova attivazione che sono a tempo determinato, che dei livelli salariali, molto inferiori rispetto a quelli delle economie manifatturiere europee concorrenti dell’Italia. Ma se a fronte della crescita dei prezzi i salari non sono in grado di tenere il passo, e dunque non vi sarà spirale inflattiva, l’effetto generato sarà di tipo recessivo, con le famiglie costrette a ridurre i consumi per far fronte al diminuito potere d’acquisto prodotto dall’inflazione.

Alla fine il mancato problema della spirale inflattiva si tradurrà in un effettivo problema di mancata o comunque di minore crescita, obbligandoci a riconsiderare i positivi commenti sul recupero del livello di Pil ante-pandemia da parte del nostro sistema economico.

Questo è il quadro generale che viene meglio precisato, per una descrizione dell’attualità da cui non si possono però estrapolare tendenze, dai numeri appena pubblicati dall’Istat sull’inflazione italiana al consumo nel mese di dicembre e nell’intero anno 2021. Che cosa ci dicono, in sintesi?

Direi le seguenti cose principali:

1) Se guardiamo all’intero anno sembra essere accaduto ben poco sul fronte dei prezzi. Infatti, nel 2021 i prezzi al consumo sono saliti in media dell’1,9%, mentre nel 2020 dell’emergere della crisi pandemica erano diminuiti dello 0,2%. Anche il dato medio del 2021 è dunque rimasto entro il valore target del 2%.

2) Se escludiamo i beni energetici, la componente più volatile, i prezzi al consumo sono cresciuti in media d’anno dello 0,7%, lo stesso dato del 2020. Dunque i soli energetici sono responsabili di 1,2 punti in più quest’anno mentre lo furono per 0,9 punti in meno in quello precedente.

3) Se il dato medio annuo sembra tranquillizzante non lo è invece quello mensile: secondo le stime preliminari dell’Istat, nel mese di dicembre 2021 l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC), al lordo dei tabacchi, ha registrato un aumento dello 0,4% su base mensile e del 3,9% su base annua, dunque rispetto a dicembre 2020. In novembre il tasso di crescita tendenziale era invece al 3,7%. Vi è stata pertanto un’ulteriore piccola accelerazione. Non dimentichiamo che ancora in luglio tale dato era all’1,9%, pertanto nella seconda metà dell’anno vi è stato un raddoppio nella velocità di crescita dei prezzi.

4) Se guardiamo invece all’indice armonizzato IPCA, valido per i confronti europei, osserviamo un incremento su base annua ancora maggiore e pari al 4,2%. Al suo interno tuttavia tutti i comparti tranne due hanno valori inferiori al 2%, pertanto ampiamente sotto controllo: beni industriali non energetici 1,1%, alimentari lavorati 1,7%, servizi 1,8%. Le due eccezioni sono date dagli alimentari non lavorati, con il 3,9%, e soprattutto gli energetici, con uno stupefacente 29,6%, peraltro in diminuzione rispetto al 31,2% del novembre precedente.

Possiamo dunque concludere sostenendo come per ora l’inflazione sia un fenomeno circoscritto al comparto energetico, ma che essa non sia purtroppo destinata a restare tale. L’energia rientra, infatti, come costo in tutti i processi produttivi ed è dunque evidente che se l’incendio inflattivo non sarà in essa domato è destinato a propagarsi anche agli altri settori. Sperando ovviamente che non sia la nuova ondata pandemica a porvi rimedio con nuove restrizioni.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI