Mentre, comprensibilmente, la crisi ucraina monopolizza l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica, sul fronte del lavoro e delle politiche sociali avvengono degli episodi significativi. Come abbiamo raccontato in questi giorni, infatti, in Belgio si sta lavorando a un disegno di legge sulla “settimana corta”. E l’iniziativa sta naturalmente destando il giusto interesse in tutta Europa.
Nelle ultime ore, invece, dalla Germania arriva un provvedimento importante che risponde al fenomeno dei working poor e alla crisi del potere d’acquisto: il Governo presieduto da Olaf Scholz ha approvato l’aumento del salario minimo a 12 euro l’ora, a partire da ottobre. Si prevede che della misura beneficeranno oltre 6 milioni di persone che attualmente lavorano sotto quella soglia.
In Germania il salario minimo legale c’è dal 2015, in quell’anno fissato a 8,50 euro l’ora. Con questa misura, si è anche introdotta una commissione – in cui vi sono rappresentati sindacali e datori di lavoro – che lo rivede regolarmente: attualmente, il livello è fissato a 9,82 euro e a luglio è previsto uno scatto a 10,45 euro. La nuova legge, che ha ancora bisogno dell’approvazione in Parlamento, fissa l’aumento a 12 euro a far data dal primo di ottobre 2022.
Nelle stesse ore anche in Spagna si è varato un aumento del salario minimo: a partire da gennaio 2022 – con valore quindi retroattivo – si passa a 1.000 euro mensili dagli attuali 965. A oggi, tra i 27 Paesi europei, solo Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Svezia e Italia non hanno il salario minimo legale.
Ancora una volta, val la pena di ricordare che l’Italia non ha trascurato la misura, semplicemente l’alta copertura (quasi l’85%) che i contratti nazionali danno ai rapporti di lavoro non ne ha a oggi richiesta l’attuazione, fino a quando i cosiddetti “contratti pirata” e gli abusi sui/sulle braccianti, come del resto nel settore edilizio in particolare, sono diventati un fenomeno sociale di dimensioni sempre più preoccupanti. A ciò si aggiunga la crescita del lavoro povero (13,2% di tutti quelli che hanno un’occupazione, +30% rispetto a 15 anni fa).
Per le ragioni qui esposte, la questione del salario minimo è inevitabile e chiede un negoziato serio tra politica e sindacato. A parte la direttiva europea, che appunto impegna Stati membri a intervenire in tal senso, oggi l’inflazione (+5% in Ue) sta sempre più stressando il potere d’acquisto, al di là dell’indice Ipca. I salari vanno rinforzati. E iniziare a mettere fuori gioco le situazioni più precarie dello scambio lavoro-salario è la cosa più sensata. Certo questo non può avvenire lasciando al legislatore la facoltà di stabilire il livello minimo dei salari: ciò in un secondo momento potrebbe diventare terreno di campagna elettorale e di scontro politico. E sarebbe una disgrazia. È questo un meccanismo che impresa e lavoro, nella loro sana dialettica, devono poter continuare a controllare. Va però detto che il legislatore può, per ciascun settore merceologico, indicare qual è il contratto più rappresentativo: sarà certamente anche il contratto con la migliore retribuzione che può quindi essere estesa erga omnes, mettendo così fuori gioco i contratti pirata.
Affrontare la questione salariale non significa soltanto rispondere al problema dell’inflazione e del lavoro povero. Non è pensabile dare attuazione alla programmazione economica europea se non partendo da qui. Green deal e Next generation Eu vogliono consolidare il mercato europeo: non si può pensare di orientare il consumo a vantaggio della produzione locale e a scapito di quella asiatica se non rafforzando il potere d’acquisto.
Twitter: @sabella_thinkin
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