Su questa testata abbiamo sottolineato come il primo passo per andare verso una campagna elettorale, soprattutto se in coalizione tra alleati, consiste nel preparare un programma su cosa si intende fare se si vincono le elezioni e come si intende farlo. Occorre dire che la Fondazione Fare Futuro (il “pensatoio” prossimo a Fratelli d’Italia) mi ha replicato privatamente per dirmi che hanno creato un comitato con nomi altisonanti per la stesura di un programma da condividere con gli alleati del centrodestra prima dell’inizio della fase propriamente operativa della campagna elettorale. Vedremo e ne parleremo.



Quest’anno chiunque vada al Governo si troverà in una situazione molto difficile: tra l’incudine dell’inflazione (di cui si parla molto) e il martello della recessione (di cui solo ora si comincia a parlare ma che non dovrebbe fare meno paura degli aumenti dei prezzi)

Diamo un’occhiata alle statistiche più recenti. La crescita dei prezzi al consumo non si è fermata, ma a luglio (stime preliminari Istat) l’inflazione tendenziale ripiega di un decimo di punto percentuale dal record di giugno (+7,9%). La determinante è ancora una volta l’aumento dei prezzi dei beni energetici, che volano su anno del 48,7%, ma anche del rincaro degli alimentari, sia lavorati (da +6,6% a +8,1%), sia non lavorati (da +7,9% a +9,6%). Purtroppo, corre anche quella chiamata dagli economisti “inflazione di fondo”, che al netto degli energetici e degli alimentari freschi, accelera da +3,2% a +3,8%. Mentre al netto dei soli beni energetici l’aumento dei prezzi sale da +3,6% a +4,2%. Ciò indica che i segnali d’inflazione colti in primavera (e considerati “focolai temporanei”) sono entrati nelle aspettative di individui, famiglie e imprese e, quindi, non sarà facile fare marcia indietro.



Negli Stati Uniti, le autorità monetarie si sono prese il compito di aggredire l’inflazione con un forte aumento dei tassi d’interesse e con misure di Quantitative tightening mirate a ridurre la liquidità in circolazione. Il risultato non si vede ancora sui prezzi, ma sull’attività economica: dal 29 luglio, gli Usa sono entrati in “recessione tecnica”, ossia sei mesi di contrazione (leggera ma persistente) del Pil. Gli Usa se lo possono permettere perché, a causa delle profonde trasformazioni del mercato del lavoro attribuite alla pandemia, il tasso di disoccupazione è pari al 3,6% – quello toccato in Italia nel 1963 all’apice del “miracolo economico”. All’ultima conta, nell’unione monetaria europea il tasso di disoccupazione era pari al 6,6% (per l’insieme dei 19 Paesi) e in Italia al 12,7%.



In effetti negli Stati Uniti, e in gran misura in Gran Bretagna, si sta seguendo una strategia simile a quella della prima metà degli anni Ottanta del secolo scorso: una recessione (auspicabilmente contenuta se si sanno manovrare bene gli strumenti della politica) per portare il tasso d’inflazione al target del 2% l’anno. La Banca centrale europea (che ha iscritto il target del 2% l’anno nei propri statuti) sta tentando la strada di un “atterraggio morbido”: aumento graduale dei tassi ed eliminazione degli “sportelli speciali” per l’acquisto di titoli di Stato durante la pandemia (l’Italia è stato il principale beneficiario). È presto per dire se questa strategia avrà successo.

Ma attenzione, in Italia . e nel resto dell’Unione europea – c’è il rischio di scivolare in recessione: nel secondo semestre 2022 la crescita del Pil è stata appena dell’1%. Ciò nonostante le politiche sia monetaria, sia di bilancio ultra espansiva adottate negli ultimi anni prima per contrastare gli effetti recessivi del Covid-19 e poi quella dell’aggressione della Federazione Russa nei confronti dell’Ucraina. 

Far fronte a inflazione e recessione simultaneamente non è semplice. Richiede un Governo coeso e un Parlamento poco sensibile alle sirene dei gruppi di pressione e una forte determinazione, Inoltre, facciamo parte di un’unione monetaria; quindi, siamo unicamente uno di 19 partner a definire e attuare la politica della moneta. La Bce sta aumentando i tassi molto più gradualmente di quanto non stiano facendo le autorità monetarie americane e britanniche (quelle del Giappone non sono della partita perché al Sol Levante l’inflazione è molto debole), non si parla di Quantitative tightening, sono stati chiusi alcun sportelli speciali per l’acquisto (e l’accantonamento) di titoli di stato, ma si profila “un nuovo strumento” per contenere la frammentazione del mercato, ossia gli spread. Vedremo se darà i risultati auspicati.

Tuttavia, da sola la politica della moneta non può combattere l’inflazione, né tanto meno bloccare i prodromi di una recessione. È necessaria una politica della concorrenza partendo proprio nei comparti (taxi, concessioni balneari) che più a lungo ne sono stati al riparo, godendo importanti rendite di posizione.

Potranno forze politiche che sinora sono state viste come sostenitori di questi gruppi cambiare rapidamente strada? E dirlo esplicitamente nei loro programmi elettorali?

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