Con l’onda lunga del Covid tornano cose dimenticate del passato. Non mi riferisco al pane fatto in casa, ma all’inflazione. È l’Ocse che presenta i dati: “L’inflazione nell’area Ocse è salita al 5,8% nell’anno fino a novembre 2021, a confronto con il 5.2% in ottobre (e l’1.2% in novembre 2020), il tasso più alto da maggio 1996”.



L’inflazione è l’aumento dei prezzi. Sempre Ocse spiega: “L’inflazione dei prezzi energetici nell’area è cresciuta al 27.7% annuale a novembre (ottobre: 24.3%), il tasso più alto da giugno 1980, mentre i prezzi degli alimentari sono cresciuti del 5.5% (ottobre: 4.6%). Esclusi cibo ed energia, per le voci restanti l’inflazione era a un tasso più moderato del 3.8% (ottobre: 3.5%) – benché più moderato questo tasso ha comunque contribuito all’inflazione complessiva delle economie più grandi”. Per l’Italia Istat ha stimato il dato preliminare di dicembre 2021 al +3,9% su base annua.



Molti cercano di spiegare il ritorno dell’inflazione attribuendo la crescita dei prezzi alla ripresa, oppure alla rottura delle catene logistiche globali, oppure alla speculazione sulle materie prime, con il carico di conflitti geopolitici che il loro controllo si trascina dietro.

Resta incerta la durata del periodo inflazionistico, c’è chi scommette per una riduzione futura delle tensioni sui mercati, c’è invece chi ricorda che ogni aumento dei prezzi delle materie prime e dell’energia si ripercuote a catena sui prezzi dei prodotti e dei servizi (tutti) che ne fanno uso.



Mentre si discute delle cause (di solito quelle dette e molte altre in complesse interazioni fra di loro), vale la pena di guardare alle conseguenze pressoché certe dell’inflazione. La principale e diretta conseguenza è la riduzione del valore reale della moneta: con 100 euro un anno fa compravi una certa quantità di beni, oggi ne puoi comprare di meno.

Tutti i detentori di liquidità (in banca o sotto il materasso) pagano una sorta di tassa silenziosa: non la vedi uscire dal conto (o dal materasso), ma oggi hai meno potere d’acquisto di ieri. Fra le principali vittime della tassa silente ci sono inevitabilmente tutti i redditi da lavoro: i salari subiscono lo stesso prelievo e valgono automaticamente di meno.

Assieme ai salari scende anche il valore del welfare puramente distributivo o assicurativo. In una lista non ordinata e non esaustiva compaiono: il Reddito di cittadinanza, i sussidi di disoccupazione e la cassa integrazione, le pensioni a qualsiasi titolo percepite, bonus e ristori di qualsiasi entità…

Ultimi, ma non ultimi, tra le vittime illustri dell’inflazione vale la pena spendere due parole in più sui salari minimi.

A seconda del Paese, i salari minimi possono essere quelli fissati per legge (non lo sono in Italia) oppure quelli fissati dai contratti collettivi di lavoro. Il dibattito sul tema si è riacceso anche nel nostro Paese dopo la Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 ottobre 2020.

L’inflazione spinge alla rincorsa i Governi che fissano i salari minimi per legge: appena fissata una soglia, l’inflazione abbassa il potere d’acquisto. I salariati più poveri restano poveri. Chi si affida a meccanismi automatici di adeguamento di solito arriva ad adeguare tardi e senza adeguare del tutto. In sintesi: il salario minimo fissato per legge da solo non basta, facile da scrivere su un pezzo di carta è difficile renderlo efficace.

La contrattazione collettiva, grande tradizione italiana ma anche di molti Paesi del nord europa, richiede un grande sforzo di mediazione e tempo. La contrattazione contiene asimmetrie: è più facile far crescere i salari di settori ad alto valore aggiunto e ad alta produttività, è più facile contrattare per gruppi professionali forti e settori in crescita. Ma una contrattazione efficace facilita la crescita per tutti. Se gli stipendi crescono, ci si può aspettare che cresca la domanda interna, se non crescono è inutile invocare in continuazione il deficit pubblico, non basterà mai.

Per quelle aree dove si contratta al ribasso (e ce ne sono), le politiche del lavoro devono rendere facile l’adeguamento delle competenze e lo spostamento dei lavoratori a posizioni pagate meglio, l’unica vera assicurazione contro la perdita della competitività di tutto il sistema produttivo.

A che punto stiamo con la contrattazione collettiva in Italia? Ancora Istat ci dà i numeri che servono: a novembre 2021 il 51% dei dipendenti in Italia era in attesa di rinnovo della contrattazione. In media questo 51% dei dipendenti attende il rinnovo da 30 mesi. Non è uno dei periodi peggiori della storia della contrattazione, ma c’è molto lavoro da fare per non cadere nella trappola delle leggi facili ma spesso inefficaci.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI

Leggi anche

SALARI E POLITICA/ Le due strade davanti all'Italia per sconfiggere il lavoro poveroSINDACATI E CONTRATTI/ La risposta a salario minimo e inflazioneSPILLO SINDACALE/ Gli errori di Landini e Bombardieri sulla rappresentanza