L’inflazione ha tenuto banco per l’intera settimana che ci lasciamo alle spalle. I dati diffusi da Spagna, Germania e Italia hanno introdotto la tanto attesa pubblicazione dell’ammontare aggregato dell’intera Eurozona.

Nella giornata di ieri, Eurostat, attraverso la propria stima flash, ha confermato i timori (divenuti pressoché certezza) della vigilia: «Ue-19: a marzo inflazione schizza al 7,5%, nuovo record. Lo scorso marzo il tasso annuo d’inflazione nell’Eurozona è schizzato al 7,5% rispetto al 5,9% di febbraio: questa la stima flash resa nota oggi da Eurostat. A determinare il livello più alto mai registrato dall’inflazione nella zona euro, secondo quanto segnala Eurostat, è stata soprattutto la crescita dei prezzi dell’energia (più 44,7% rispetto al più 32% di febbraio)» (fonte Ansa).



Con il +7,5% di marzo, che come appreso è «il livello più alto mai registrato dall’inflazione nella zona euro» (doverosa sottolineatura), l’Eurozona entra in un territorio mai esplorato prima. Con il +7,5% di marzo, vengono definitivamente cancellate e archiviate le dichiarazioni di inizio anno della Presidente della Bce Christine Lagarde che, nel corso di un’intervista alla radio France Inter, annunciava: l’inflazione «scenderà meno di quanto avevamo previsto, ma scenderà. Secondo le nostre stime di dicembre, l’inflazione sarà del 3,2% nel 2022 (…) e molto più bassa in Francia»; inoltre, «i prezzi dell’energia non continueranno a salire indefinitivamente e gli ingorghi alla fine si attenueranno» (fonte Agi). Infine, con il +7,5% di marzo, ancora, sorgono seri dubbi sull’attendibilità delle precedenti e individuate «stime di dicembre» fornite dalla stessa Bce.



Alcuni potrebbero obiettare che queste nostre considerazioni non prendono in considerazione l’evento trigger che ha comportato questo naufragio inflattivo: ossia – nel merito – il conflitto Russia-Ucraina. Quest’ultimo, di fatto, c’è ed è presente e la sua influenza ha pressoché incrementato la già debole e difficile azione della stessa Banca centrale del Vecchio continente. Però, riteniamo opportuno riportarlo all’attenzione di tutti, la guerra in atto è un mero e inaspettato “acceleratore” di un’auto lanciata a folle velocità sul tortuoso tragitto di politica monetaria; sarebbe errato (dal nostro umile punto di vista) identificarlo come “la scusa” o “il motivo” del diffuso carovita. A supporto di questa ipotesi un dato su tutti: lo scoppio della guerra in Ucraina è avvenuto al termine di febbraio. 



Nella realtà dei fatti, però, le rilevazioni mensili in profondo rosso (ovvero distanti dalle iniziali «stime di dicembre») di Eurostat riportavano già valori completamente difformi a inizio anno (v. colonna evidenziata in verde). A questa incontrovertibile constatazione si aggiunge un ulteriore e potenziale elemento di dubbio: a dicembre i prezzi del petrolio (rif. WTI) erano a 75,21 dollari per successivamente – in solo due mesi – lievitare a oltre 90 (chiusura settimanale pre-inizio conflitto Russia-Ucraina). Nei giorni a seguire la guerra, le quotazioni hanno raggiunto nuovi massimi fino a quota 130 per poi ritracciare e giungere agli attuali livelli (100 dollari).

Anche in questo caso, le precedenti considerazioni citate a inizio anno (rif. «i prezzi dell’energia non continueranno a salire indefinitivamente e gli ingorghi alla fine si attenueranno»), come devono essere interpretate? Un altro errore? Una stima poco ponderata e pertanto azzardata?

Vedremo cosa accadrà nel corso dell’anno, ma i dubbi ci sono ed è lecito prenderne (doverosamente) consapevolezza: ora. Perché come già accaduto in passato e non solo repetita iuvant. 

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