Ci sarà guerra dei prezzi tra i supermercati anche ora che il discusso Trimestre anti-inflazione fortissimamente voluto dal ministro Adolfo Urso ha terminato il suo corso? Le probabilità, secondo Alka Seltzer, sono elevate. E il rischio è che a farne le spese siano i fornitori. L’espulsione dagli scaffali dei prodotti Pepsi, colpevole di aver alzato i listini, da parte di alcuni colossi distributivi, ci dice che non sarà facile per i fornitori far passare aumenti ai grandi clienti della moderna distribuzione.
Le insegne dei supermercati, si sa, competono a colpi di prezzi bassi. Basta sfogliare i volantini promozionali per averne conferma. Prima era solo una strategia commerciale, ma ora al prezzo corto il supermercato ha attribuito un senso sociale: non lo si tiene basso per competere, ma perché si è vicini alle famiglie alle prese con il basso potere d’acquisto. In virtù di questa valenza le catene commerciali si (auto)attribuiscono una superiorità morale nel sistema commerciale, almeno rispetto ai fornitori delle marche industriali, che nelle dichiarazioni pubbliche sono costantemente invitati a fare la loro parte, a evitare aumenti dei listini o a ridurli in considerazione della progressiva normalizzazione delle tensioni inflative. L’industria replica che i listini crescono perché i costi sostenuti nel 2021/2022 (materie prime, energia, trasporti, imballaggi…) non sono stati scaricati interamente a valle. E in alcuni comparti (per esempio, in quello dell’olio di oliva) sono tutt’altro che scesi. È una contesa che, secondo Alka Seltzer, interessa molto gli addetti ai lavori, ma non il cittadino.
Il perché è presto detto: Nielsen ha calcolato che mediamente ogni mese l’impatto per le famiglie della crescita del carrello della spesa è stato di 35 euro. Se consideriamo che il differenziale mensile calcolato da Istat ammonta a 446 euro scopriamo che i prodotti di uso quotidiano – ambito in cui il consumatore può contare su una vasta gamma di alternative per qualità e prezzo – hanno inciso sulla crescita del costo della vita decisamente meno di mutui, trasporti e bollette varie.
Il problema inflativo va visto nella sua complessità e non può essere certo risolto dal settore del largo consumo. E il fatto di scaricare su altri attori della filiera colpe o accuse di speculazione certo non giova all’immagine di un settore che invece dovrebbe operare congiuntamente per affermare – rispetto alle istituzioni e all’opinione pubblica – il ruolo virtuoso che gioca nello scenario economico e sociale italiano. Da gennaio l’Iva sul gas torna al 22%, dopo essere stata temporaneamente portata al 5%. Sono aumentati i pedaggi autostradali, con effetti sul costo del trasporto merci e sui conti degli automobilisti. Ci sono preoccupazioni in merito alle dinamiche che potrà avere il “mercato libero” dell’energia. Panorama riporta che a settembre 2023 il prezzo del gas “liberato” era cresciuto del 28%, mentre nel mercato tutelato era crollato del 34%. Nella giungla delle offerte è tutt’altro che facile per le famiglie farsi un’idea. Non a caso le associazioni dei consumatori sono in stato di allerta. Infine (ma enormemente più preoccupanti), non dimentichiamo fatti come il conflitto scatenato dalla Russia in Ucraina, l’escalation bellica in Medio Oriente e i focolai di quella che papa Francesco ha definito “guerra mondiale a pezzi” che generano paure crescenti nell’opinione pubblica che certo non contribuiscono alla dinamica della domanda.
La guerra dei prezzi tra insegne e tra prodotti ci sta. È un effetto della concorrenza: quando è vera i prezzi scendono. Vale per i prezzi dei supermercati. E vale per i fornitori di prodotti alimentari e non alimentari, che non possono permettersi di rimanere indifferenti di fronte a una perdita di quota di mercato. Problema che evidentemente non investe altri settori dell’economia dove la concorrenza evidentemente non si esprime come dovrebbe. E non stiamo parlando di balneari e taxisti…
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