Forse non tutti sanno che la fine dell’anno coincide di norma con l’avvio dei rinnovi contrattuali dei listini praticati dalla industria alimentare alla distribuzione. Rinnovi nevralgici perché sulla base di quei listini si costruiscono poi i prezzi praticati ai consumatori. Si tratta dunque di una fase tradizionalmente molto calda, che quest’anno assume però toni particolarmente accesi. Nei giorni scorsi, infatti, organizzazioni e insegne della Distribuzione moderna, a partire dalle associazioni di categoria Adm e Federdistribuzione, hanno acquistato intere pagine pubblicitarie sui quotidiani nazionali per chiedere un confronto alle imprese del Largo consumo. E soprattutto per sollecitare la disponibilità a frenare gli aumenti per l’inizio del 2023.
L’inserzione ricorda come l’inflazione dei beni di largo consumo abbia raggiunto a novembre il 12,8%, “un dato che non si rilevava dagli anni Ottanta” e che “sarebbe stato più alto se le imprese della Distribuzione moderna in Italia non avessero assorbito una parte degli aumenti, rinunciando a una quota del proprio margine economico”, si legge ancora nell’appello. Un impegno non di poco conto se si considera che, secondo i calcoli delle insegne della Gdo, gli incrementi di listino lordo di acquisto ricevuti nel 2022 dalle industrie del Largo consumo sono stati “mediamente superiori al 20%”.
Oggi però questa dinamica pare diventare insostenibile: la distribuzione sostiene di non essere “più in grado di assorbire ulteriori incrementi dei costi, dovendo far fronte anche ai consistenti rincari dell’energia”. E da qui l’appello all’industria perché metta a terra “un forte segnale di responsabilità”, ovvero si dica disponibile “ad avviare un confronto per frenare gli aumenti di listino, pur se già programmati, almeno per i primi mesi del 2023”. E questo anche alla luce di un segnale positivo dato dai mercati internazionali che “in queste settimane indicano un rallentamento delle quotazioni di molte materie prime industriali”. Il che porrebbe le condizioni per “limitare ulteriori aumenti ed evitare di deprimere i consumi“.
Davanti a questa precisa presa di posizione non è però mancata la risposta delle aziende. “Le industrie del largo consumo confezionato e quelle di marca – è la replica di Francesco Mutti, presidente di Centromarca, l’associazione di categoria che riunisce l’industria italiana di marca – si sono fatte carico di una parte degli aumenti spropositati di materie prime ed energia trasferendo a valle sui consumatori solo una parte dei rincari subiti”. A dare la misura del fenomeno è un’indagine interna di Centromarca, dalla quale emerge che nel 2022 gli extracosti applicati al carrello sono di misura compresa solo tra il 20% e il 50%, con una conseguente riduzione dei margini (tra il 40% il 70%) o addirittura perdite, anche se confinate ad alcune categorie. “Oggi – continua Mutti – grande parte degli aumenti grava sulle spalle dell’industria. E di fronte a noi abbiamo una dinamica inflattiva che prosegue, anche se non con la stessa intensità registrata nel corso dell’ultimo biennio”.
In questo contesto, dunque, “un’ipotesi di moratoria dei prezzi – rileva Mutti – rischia di non affrontare il problema dei rincari alla radice, a fronte di un beneficio molto temporaneo, ma scarica una parte del problema sulla filiera industriale”. Insomma, conclude Mutti “una moratoria dei prezzi non è possibile senza pregiudicare la tenuta del tessuto produttivo”.
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