La crescita dell’inflazione in Italia si sta allineando a quella media dei paesi europei e, con tutta probabilità, la supererà nei prossimi mesi per via della particolare esposizione del nostro Paese ai rincari delle forniture di gas fossile.
L’invasione dell’Ucraina ha praticamente accantonato le illusioni di una crescita dei prezzi di natura temporanea, e lo scenario prossimo venturo potrebbe persino configurare la necessità di promuovere interventi tipici delle economie di guerra, e provvedimenti straordinari rivolti a contenere i consumi energetici. La variabile geopolitica è entrata a tutti gli effetti nella valutazione della sostenibilità delle politiche economiche e delle scelte produttive. Alcuni economisti definiscono l’inversione di tendenza con il termine “deglobalizzazione” per rappresentare il ritorno in campo del ruolo degli Stati nazionali e l’oggettivo ridimensionamento delle possibilità consentite alle imprese di allocare le decisioni di investimento precedentemente offerte dal modello neo-liberista che ha accompagnato la globalizzazione dei mercati.
La crisi di questo modello è un fatto consolidato, soprattutto per l’impatto in termini di sostenibilità ambientale e sociale. Ma viene vissuta in maniera opposta nell’ambito dei Paesi sviluppati rispetto a quelli in via di sviluppo, che continuiamo a definire tali per le differenze nel reddito pro capite nonostante rappresentino attualmente più della metà del Pil mondiale. Per i primi la crisi rappresenta l’opportunità di rendere ambientalmente e socialmente sostenibili le scelte economiche. Per la gran parte dei secondi, questi orientamenti vengono interpretati come il tentativo di scaricare su di loro le conseguenze dei disastri ambientali provocati dai Paesi sviluppati.
Diversamente dal passato, l’approccio dei Paesi in via di sviluppo, a partire dalla Cina e dalla Russia, non è puramente difensivo ma si propone di riscrivere la governance delle relazioni internazionali. Le implicazioni di questa sfida sono di grande portata per le democrazie occidentali che non possono dare per scontata la superiorità del loro modello di sviluppo e che vengono interrogate sulla tenuta del consenso interno nel gestire le conseguenze che ne derivano.
La globalizzazione delle scelte economiche ha generato fratture profonde nei rapporti tra il capitale e il lavoro e nel mercato del lavoro, un complessivo indebolimento delle relazioni sindacali e delle politiche dei redditi in ambito nazionale che hanno veicolato uno straordinario miglioramento delle condizioni di lavoro e di reddito delle popolazioni nella seconda parte del secolo scorso.
L’instabilità dei percorsi professionali e delle dinamiche dei redditi rimangono la principale causa della crisi di consenso verso i ceti politici e le istituzioni democratiche. In questo contesto un contributo fondamentale alla tenuta dei redditi è stato offerto dai costi decrescenti delle importazioni, favorito dalla globalizzazione dei mercati, e dalla crescita della produttività derivante dalla diffusione delle nuove tecnologie.
In un certo senso il ritorno dell’inflazione, e la misurazione della capacità di contenere gli effetti sull’apparato produttivo e sui redditi delle persone, rappresenta una cartina tornasole riguardo la possibilità di ricostruire, con nuove modalità, un patto sociale tra le rappresentanze delle imprese e dei lavoratori per massimizzare l’utilizzo efficiente delle risorse disponibili e per contenere i costi sociali delle riorganizzazioni produttive.
Il primo obiettivo dovrebbe essere quello di evitare che l’aumento dei prezzi importati diventi l’oggetto di una rincorsa tra prezzi e salari, con la conseguenza di dilatare nel tempo l’inflazione, con effetti controproducenti per la competitività del sistema produttivo e di penalizzare i segmenti più deboli del sistema delle imprese e della popolazione.
Per il nostro Paese la strada principale per difendere il potere d’acquisto dovrebbe essere quella di offrire certezze ai rinnovi contrattuali e consolidare l’opzione di ridurre il cuneo fiscale sulle retribuzioni più basse. Una scelta che potrebbe essere orientata da un’intesa confederale volta a individuare e aggiornare le soglie minime delle retribuzioni di base da utilizzare per la definizione dei parametri professionali dei contratti collettivi di settore.
L’utilizzo della leva fiscale dovrebbe essere concentrato sull’incentivazione del risparmio destinato agli investimenti, la digitalizzazione delle imprese e la riduzione del prelievo fiscale per gli incrementi salariali collegati all’aumento della produttività.
Le parti sociali devono assumere un ruolo primario nell’orientare le politiche attive per l’inserimento lavorativo accompagnato da percorsi formativi, nelle forme di alternanza tra scuola e lavoro, per l’aggiornamento sistematico delle competenze dei lavoratori.
L’intervento delle parti sociali risulta particolarmente necessario per rimediare al drammatico sottoutilizzo delle risorse umane in ambito lavorativo e nel mercato del lavoro per la quota ridotta della popolazione attiva, e per la debolezza del sistema delle imprese nei comparti dei servizi.
Sulla strada della costruzione di un solido patto sociale sono presenti tre incognite. La prima legata al peso assunto dallo Stato nell’assecondare le richieste corporative e la spesa assistenziale oltre la ragionevole esigenza di tutelare temporalmente le conseguenze della perdita involontaria del posto di lavoro ovvero la condizione delle persone fragili. Una situazione che impedisce in via di fatto la crescita del ruolo responsabile, partecipativo e contributivo delle rappresentanze sociali e delle persone.
La deriva massimalista della Cgil e della Uil che ha assunto toni preoccupanti nei tempi recenti, rischia di compromettere qualsiasi proposito di ripresa del dialogo sociale. La terza incognita è rappresentata dalla scarsa responsabilità sociale di una parte rilevante del sistema delle imprese e delle associazioni di rappresentanza incapaci di comprendere che il lavoro sommerso e l’evasione fiscale sono incompatibili con l’esigenza di migliorare la qualità e la produttività del sistema delle imprese e del mercato del lavoro.
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