In questi ultimi mesi, la ripresa dell’attività economica e del commercio internazionale dopo le fasi più acute dell’emergenza sanitaria è accompagnata da serie difficoltà logistiche. I trasporti internazionali sono significativamente rallentati rispetto all’epoca pre-Covid: ad esempio, da qualche mese le navi che raggiungono i porti americani di Los Angeles e di Long Beach, i più importanti punti di accesso delle merci agli Stati Uniti, impiegano mediamente ben dieci giorni a scaricare i propri container, mettendo a rischio la possibilità di acquisti di Natale; situazioni simili si registrano in varie altri parti del mondo, in particolar modo in Asia.



Anche la produzione non riesce a stare al passo con la domanda. È di pochi giorni fa la notizia che Apple taglierà la produzione di iPhone 13 per la difficoltà nell’approvvigionamento dei semiconduttori, e, di conseguenza, di microchip, legata, oltre che all’elevata domanda di questi prodotti, anche agli scarsi investimenti in capacità produttiva di questi ultimi anni, in particolare nel periodo del Covid. 



La forte domanda internazionale di prodotti e l’inerzia, in parte inevitabile, nei settori della produzione e del trasporto rappresentano un contesto economico “ideale”, per così dire, per un aumento dell’inflazione: a maggior ragione se consideriamo le politiche monetarie espansive delle banche centrali degli ultimi anni, nonché i maggiori costi dell’energia. Alcune avvisaglie dell’aumento dei prezzi, in particolare quello del grano e di alcuni altri prodotti intermedi nel settore alimentare, ci sono peraltro già state. 

Come quasi sempre accade di fronte a un concreto e immediato rischio di inflazione, in molti, inclusi autorevoli esponenti del mondo economico, si stanno cominciando a chiedere se non sia necessario un intervento del Governo per calmierare i prezzi. A prima vista, calmierare i prezzi può sembrare un modo naturale ed efficace per proteggere i cittadini dagli aumenti di prezzo, ed è quindi logico e comprensibile che ci sia una domanda in tal senso da parte dell’opinione pubblica. Purtroppo, però, si tratta di una soluzione illusoria: ha molti effetti indesiderati, che non solo ne riducono, o addirittura ne annullano, l’efficacia, ma producono anche effetti collaterali, che possono rivelarsi peggiori del “male” che curano. 



Nonostante ciò, come spesso capita, la pressione dell’opinione pubblica ha avuto spesso la meglio e i prezzi sono stati frequentemente calmierati. Già ne discuteva il noto economista bocconiano, di impostazione keynesiana, Ferdinando di Fenizio in un saggio pubblicato nel 1935 sul “Giornale degli Economisti e Rivista di Statistica”: “…[Alle lamentele per i prezzi al rialzo], sono seguite provvidenze del potere pubblico miranti a frenarli […]. Sulla reale efficacia di queste provvidenze calmieratrici gli economisti si sono, da tempo, espressi con assennato scetticismo, procurando di avvalorarlo col descrivere, com’è loro compito, il gioco di azioni e di reazioni determinato da simili misure, in specie nel campo della produzione. Che con ciò siano riusciti a convincere i legislatori sull’opportunità di procedere cauti su questo terreno, non pare, alla luce dell’esperienza”.

L’evidenza sulla veridicità dell’ultima frase citata da Di Fenizio è abbondante. Qui ci limitiamo a ricordare l’esperienza di Diocleziano, che, con l’editto del 301 d.C., tentò di frenare la dilagante crisi economica con un corposo intervento di calmieramento dei prezzi suddiviso in 32 sezioni, dal quale si evince che i due beni di maggior valore, quanto meno secondo il prezziario di Diocleziano, erano i leoni e una libbra di seta colorata con la porpora, per i quali il prezzo massimo era fissato a 150.000 denari. Diocleziano arrivò addirittura a stabilire i prezzi massimi dei diversi vini, “premiando”, con i prezzi più alti, il Piceno e il Falerno. 

Gli storici ci dicono che l’editto dei prezzi di Diocleziano provocò la paralisi dell’attività economica dell’impero. Molte imprese e mercanti, non intravvedendo più prospettive di guadagno, interruppero la produzione o il commercio. In alternativa, alcuni violarono l’editto, dando inizio a un ampio sistema di mercato nero. Altri, infine, ricorsero al sistema del baratto, tornando a un metodo primitivo, che comportava un’ovvia riduzione di efficienza, bruciando, di fatto, secoli di progresso nel settore monetario. Si tratta di tre reazioni che hanno reso il calmieramento dei prezzi non solo inefficace, ma anche controproducente. 

D’altronde anche in riferimento ai prezzi calmierati dei Paesi ex comunisti, sono quasi iconiche le liste d’attesa e le code con cui si cercava di smaltire la grande domanda di prodotti come automobili e televisori, a fronte della loro pressoché totale introvabilità. Uno studio dell’economista della Banca Mondiale David Tarr, relativo agli apparecchi televisivi in Polonia, mostra che il solo costo delle perdite di tempo a cui erano soggetti coloro che volevano acquistare la televisione (i quali, pur dovendo aspettare anni, erano costretti a recarsi quasi quotidianamente in negozio per non perdere la priorità nella lista d’attesa) era di 10 volte superiore al valore complessivo delle vendite nell’industria.

La storia ci insegna quindi che calmierare i prezzi rischia di scoraggiare i produttori e, quindi, di generare una riduzione dell’offerta, creando disoccupazione e rendendo alcuni prodotti introvabili, con conseguenze economiche e sociali disastrose. Inoltre, si corre il rischio di alimentare un mercato nero o un ritorno, per i prodotti calmierati, al baratto, con tutte le inefficienze e le iniquità che esso comporta. Questo sottende una verità spesso sottovalutata: in generale, i prezzi, in un sistema di mercato, segnalano la scarsità e la correggono. Un prezzo alto incentiva i produttori a produrre di più e incentiva altri imprenditori a operare su quel mercato: in momenti di scarsità come quello attuale, dunque, il prezzo alto incentiva ad aumentare la produzione, così riducendo strutturalmente lo sbilanciamento fra domanda e offerta e contribuendo a correggere lo squilibrio iniziale. Calmierare i prezzi in presenza di inflazione non permette questo aggiustamento e rischia dunque di aggravare i problemi – lungi dal risolverli – e di crearne di ulteriori. 

Se il Governo, per ragioni sociali o economiche, intende intervenire su alcuni mercati in periodi di inflazione, ha a disposizione strumenti diversi e nettamente migliori rispetto all’imposizione di un prezzo calmierato. Ad esempio, può stimolare e rendere più flessibile l’offerta o può intervenire con misure mirate di tipo fiscale (che, per ragioni di spazio, non è possibile approfondire in questa sede). Purtroppo si tratta però di misure più sofisticate, più complesse da concepire e più difficilmente propagandabili ai cittadini e all’opinione pubblica. Per questo molti Governi – per fortuna, certamente non quello attuale – preferiscono invece puntare su soluzioni, come i prezzi calmierati, di impatto immediatamente visibile per i cittadini, noncuranti della loro inefficacia e dei loro gravi effetti collaterali nel medio e nel lungo periodo.

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