Per il dato inflattivo Usa che verrà pubblicato oggi, e riferentesi a giugno 2022, in tendenziale sull’anno si stima un tasso del 9-9,1% con valore minimo non sotto all’8,7%. Il Consensus Bloomberg di operatori di mercato stima invece l’8,8%, e quindi comunque valori in crescita.
Veniamo ora all’analisi quantitativa e descrittiva che porta alle congetture di cui sopra, e subito quindi viene da dire che lo scenario di fondo è sempre lo stesso, e cioè di medio-lungo periodo: fine del globalismo statunitense, il quale era iniziato con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, e approdo poi ai termini finali di questo evento grandioso, tramite le manifestazioni iconiche, appariscenti e drammatiche del Covid-19 prima e della guerra in Ucraina poi; come già sottolineato varie volte in precedenti analisi, nel corso di questo ultimo trentennio non è che fossero mancati i campanelli d’allarme, e cioè a dirsi dal terrorismo di matrice islamica alla crisi Lehman Brothers, alle rivolte euro Maidan del 2014; in effetti, era stato tutto un susseguirsi di linea di faglia ai livelli più fondamentali delle questioni internazionali; su questi scenari ineriscono poi fenomeni più settoriali, del tipo ad esempio dell’eccessiva finanziarizzazione dei fenomeni economici con l’immagine evidente delle bolle e della bolla che è oggi Wall Street; poi, vanno ricordate le discussioni e le progettazioni inerenti il cambiamento climatico e quindi tutti i problemi che si creano quando i progetti sono solo ideati e minimamente resi operativi; non va poi dimenticato alla luce di fatti ex post l’estrema fragilità della catena di filiere produttive e logistiche basate sulla globalizzazione, in sostanza scenari e modi operativi basati in maniera erronea sul credo “della fine della storia”, altro modo di definire l’impero americano.
Date le premesse di cui sopra, possiamo ora analizzare con più cura alcune affermazioni, meglio sarebbe dire alcuni incipit, del pPesidente della Fed Powell che mi lasciano seriamente da pensare; in sostanza, facendone un sunto logico, egli afferma che l’istituto federale farà di tutto e in maniera efficace per fermare l’inflazione, dato che la crescita e l’economia americane sono robuste, e quindi corollario di tale affermazione sarebbe che il vero problema arduo della Fed è il trade off inflazione-disoccupazione, che detto con altre parole lo si potrebbe esternare in tale maniera: quanta crescita va sacrificata per fermare l’inflazione e portarla a un livello adeguato?
Questi di cui sopra sono i desiderata ufficiali della Fed presentati anche come robusti, quasi certi anche nelle più piccole sfumature quantitative e qualitative; in sostanza, è stato presentato al mercato uno scenario rassicurante in quanto anche se impegnativo, comunque sotto il controllo delle autorità monetarie.
Proprio queste implicazioni finali mi trovano del tutto scettico e in disaccordo, e al di là di un’analisi economica che si cercherà via via di esplicitare al meglio in questo intervento, c’è a livello retorico un passaggio del Presidente Fed che a mio parere svela la foglia di fico di tutti i desiderata della banca centrale; cioè, quando Powell dice quasi in surplace, come a completare il discorso in forma compiuta, che la Fed può controllare solamente l’inflazione riconducibile alla domanda; ebbene, questa retorica del passaggio accennato nasconde il problema serio, in quanto, se l’offerta aggregata aveva minima, quasi nulla influenza sulle dinamiche inflattive odierne, perché far presente che l’offerta non può essere controllata da Powell? Perché tale “inciampo retorico” nasconde il problema vero: l’inflazione attuale degli Stati Uniti è per una quota pari al 70-80% esogena da fattori e dinamiche dell’offerta, e in questi scenari solamente la Casa Bianca e il Congresso possono intervenire.
Da un anno e più a questa parte vado sostenendo che il fattore esogeno più importante e dirimente del fenomeno inflattivo odierno è il petrolio, dato il suo ruolo preponderante e in parte anelastico di input energetico a livello mondiale; lo si ricorda l’ennesima volta che il petrolio pesa per il 35% circa di tutte le fonti energetiche mondiali di ogni tipo: inquinanti e verdi; tra le altre cose, per il 20% circa sull’intero insieme delle fonti energetiche mondiali l’utilizzo del petrolio è anelastico, ciò vuol dire che non è sostituibile nemmeno da carbone e gas perlomeno in un orizzonte minimo di 10 anni circa; basti pensare a riprova al parco mondiale del trasporto su gomma, al trasporto aereo e navale, agli utilizzi militari.
Da tale punto di vista, il vulnus grave e non gestibile con politiche della domanda, né con politiche dell’offerta interne ai soli Stati Uniti, è che gli stessi non hanno l’indipendenza energetica ma soltanto la sicurezza energetica, in quanto circa 4 milioni di barili al giorno di petrolio – per inciso un barile Wti di petrolio è pari a circa 155 litri di capacità – li devono acquisire dal mondo su un fabbisogno lordo di 22 miliardi di barili giornalieri, e con la seguente specificazione che circa 5 milioni di barili giornalieri sono forniti agli Stati Uniti dal Canada che si può immaginare, alterando un po la realtà delle cose, quasi come uno Stato confederato degli Usa; ed è da tale motivo che nasce la sicurezza energetica, in quanto avere garantito 18 milioni di barili al giorno su un fabbisogno lordo di circa 21,5-22 milioni barili giornalieri porta a tale risultato, ma non a quello dell’indipendenza energetica che svela un ammanco dalle proprie capacità dell’attuale sistema industriale produttivo e antropologico di circa 4 milioni di barili al giorno da reperire fuori dalla nazione e dal Canada.
Per tali motivi c’è l’attuale livello di inflazione negli Stati Uniti d’America, e cioè per come sono organizzate le esigenze della domanda aggregata, la mancanza del quantum desiderato di petrolio nella propria disponibilità porta ad aumenti di prezzo della risorsa e per tale via a una crescita e a un inasprimento dell’intero fenomeno inflattivo, il quale giova ricordarlo si alimenta poi di altri fattori secondari ma importanti anch’essi: rottura delle catene di approvvigionamento mondiale dovute al Covid-19, frammentazione e incertezza del mercato del lavoro, soprattutto negli ultimi due anni a causa sempre del Covid-19, poi a seguire effetti ricchezza da bolle immobiliari localizzate, disordine e inquietudini sulle implementazioni politiche industriali verdi, e da ultimo ma non ultimo uno dei problemi dei problemi: quale distribuzione sociale equa e efficace del reddito della nazione, problema reso ancora più severo da una mole sterminata di debito pubblico; per correttezza di dato va ricordato che è il più grande debito pubblico realizzato nella storia dell’umanità.
Che quest’ultimo aspetto sia foriero di problemi sociali e civili che potrebbero diventare ingestibili, lo dimostra un’affermazione di Elon Musk, personaggio che non mi dà alcuna sicurezza, né simpatia umana; bene, l’affermazione in oggetto verte sul fatto che nei momenti di crisi inflattiva e industriale, la via da percorrere sia quella della recessione competitiva di tipo darwiniano: i più deboli e inefficaci soccombono lasciando il posto agli aggregati sociali più forti e progettuali.
C’è bisogno di analizzare in profondità la pericolosità sociale umana di tali farnitecazioni, fatte da un uomo indubbiamente geniale ma con forti lati di temerarietà e dispregio nei riguardi della “ordinaria persona della strada”; che poi in termini di un dibattito più marcatamente economico e fiscale, il nostro è in rotta di collisione col Presidente Usa Biden, il quale vorrebbe – a mio parere giustamente in frangenti del genere – tassare gli enormi patrimoni degli innumerevoli miliardari americani e contribuire con tale gettito, a saldi di spesa invariati se non regressivi del bilancio pubblico, a dare sollievo dal peso inflattivo soprattutto ai consumi delle fasce sociali più deboli e ai consequenziali e fondamentali consumi collettivi. L’idea di Musk e quindi della Wall Street più temeraria e potente è diametralmente opposta in piena linea di esasperazione senza fine del sogno americano: la persona fisica singola che è artefice indiscussa del suo destino.
Da qui nascono secondo me i problemi che stiamo osservando oggi nel mondo: sta fallendo la globalizzazione e in parte importante è già ridimensionata perché i tessuti antropologici profondi vasti e millenari di altre parti del mondo non vogliono perdere il proprio tessuto identitario a favore di una nuova identità americana.
Risultato: più incertezze, più distanze e quindi progetti e risorse economiche più lunghe e più difficili da gestire, che altro non significa che affrontare maggiori costi, e perciò maggiore inflazione fino a che un gigantesco quadro non si ricomponga sulla base dell’accordo strategico fondamentale di nuovo conio tra Stati Uniti e Russia.
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