Il Wall Street Journal ha citato il caso di un pensionato che ha scoperto che la sua utilitaria comprata tre anni fa con un leasing residuo di 15mila dollari oggi vale al mercato dell’usato più di allora. Perciò ha deciso di riscattare il prestito e di vendere la macchina con una plusvalenza di 9mila dollari. L’inflazione, almeno per qualcuno, può rappresentare un buon affare.
Ma non è certo il caso del Tesoro italiano, viziato dai conti di alcuni anni eccezionali, condizionati dalla pandemia, in cui il debito è salito a manetta fino al 154% del Pil, ma le scadenze dei nostri titoli di Stato si sono allungate oltre i 7 anni e nel 2021 il costo medio della nostra raccolta è risultato dello 0,1%, un livello bassissimo grazie alla combinazione tra tassi bassi e acquisti della Bce che hanno coperto l’ammontare delle nuove richieste.
Il quadro positivo, però, è oggi a rischio a fronte dell’impennata dell’inflazione, mai così alta in Usa da quarant’anni: i T-bond Usa sono schizzati oltre la barriera del 2% e puntano verso l’alto come vuole la Fed per spegnere l’inflazione (improvvidamente accesa proprio dalla banca centrale con un gigantesco esborso di liquidità cui la Casa Bianca non è riuscita ad agganciare le riforme arenate al Congresso a fronte dell’opposizione repubblicana). Anche se la Bce resiste, memore dei disastri provocati nel 2011 da un rialzo prematuri dei tassi, non è difficile prevedere che il costo del denaro è destinato a salire. E per giunta sarà sempre più difficile convincere i partner europei che sia necessario prorogare gli acquisti di titoli o allentare, senza impegni e contropartite, il Patto di stabilità. Come ha notato Daniel Gros, “nessuno sembra avere voglia di fare sconti, e l’Italia ci arriva nelle peggiori condizioni: uno spread che rischia di impennarsi, una finanza fuori controllo, una massa di provvedimenti preliminari al Pnrr che non sono stati neanche impostati malgrado l’assommarsi di ‘scatole vuote’ sotto la voce riforme, una politica erratica e debole che non è in grado di fare le scelte dure che servono”. Più ancora, il vero pericolo è di sprecare la carta Draghi: se non ci riesce lui a metter ordine nei tanti dossier di un Paese scombinato, dalla magistratura ai bagnini, che altro ci resta?
È in questa cornice che va ribaltato il quadro delle priorità: non basta raccogliere le poche risorse disponibili per evitare che le bollette sommergano le imprese e i bilanci famigliari. Oppure dare una mano all’industria dell’auto in frenata. Questi interventi, pur necessari, serviranno a poco se non inseriti in una strategia dell’energia o della politica industriale che guardi oltre la contingenza. Non basta, seppur è necessario, stringere i cordoni della borsa: ci vuole anche una politica degli investimenti che non può non far capo alla ricchezza delle famiglie spesso impiegata in modo irrazionale. Spostiamo, con incentivi fiscali, il risparmio degli italiani verso impieghi produttivi, premiando il lungo periodo e le cose che servono a far crescere l’economia del Paese e le giovani generazioni a cui, per ora, altro non offriamo che villette a schiera finanziate dal superbonus edilizio, che tanto si presta a favorire abusi e occupazione di basso livello.
Più chips, insomma, e meno mattoni, come hanno capito i nostri partner e concorrenti.
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