Lunedì pomeriggio, Paul Krugman, dalle “colonne” di Twitter, ora “X”, ha fornito il proprio supporto a una revisione dell’obiettivo di inflazione della Fed che dovrebbe essere spostato dal 2% al 3%. Krugman ha espresso questa opinione in supporto a un articolo pubblicato sul Wall Street Journal da Jason Furman, oggi professore ad Harvard, e già primo consigliere economico di Obama per tutti gli otto anni del suo mandato e, prima ancora, consigliere di Bill Clinton. I nomi e i curriculum di chi partecipa al dibattito consigliano estrema attenzione e, in effetti, la questione è capitale per i mercati e i risparmi, e non solo, di famiglie e consumatori.
Oggi l’inflazione scende complice la progressiva erosione dei risparmi accumulati durante il 2020 e il 2021, un lungo ciclo dei rialzi dei tassi e gli effetti che i rincari hanno sui consumi. Alcuni sistemi stanno meglio degli altri; l’Europa ha avuto una crisi energetica che l’America non ha avuto e gli Stati Uniti possano fare leva sulla valuta di riserva per spingere sul deficit più degli altri. I salari si sono mossi diversamente a seconda dei sistemi e della loro forza. La disinflazione è però un fenomeno in atto e comune a tutti; nella fase attuale si può vedere una continuazione di questa dinamica nei prossimi mesi.
In questo quadro ci si aspetterebbe che l’inflazione uscisse progressivamente dal radar e che fosse in qualche modo confinata a un periodo non breve ma eccezionale che si sta per concludere; è una fase iniziata nel terzo trimestre del 2021 e finita nel quarto trimestre 2023: poco più di due anni. Spostare il target di inflazione dal 2% al 3% significa decidere quando la Fed può dichiarare di aver vinto la battaglia e, magari con i primi segnali di recessione, cominciare a tagliare i tassi. Più è alto il target di inflazione, prima la Federal Reserve può cominciare a invertire la politica monetaria, dopo una lunga serie di rialzi o, nel caso opposto, ritardarli in uscita da una recessione.
Jason Furman argomenta questo cambiamento di obiettivo di inflazione sostenendo che “potrebbe schermare l’economia da recessioni severe”: “Quando l’economia rallenta, un’inflazione più alta significa che avere prezzi in salita e salari fermi possono diventare meno spiacevoli che licenziamenti diffusi per le imprese che cercano di tagliare i costi”. Il cuore del ragionamento è che per evitare i licenziamenti “di massa” è meglio perdere potere d’acquisto e valore dei risparmi. È noto che le famiglie sono più sensibili ai licenziamenti che alla perdita del potere d’acquisto. Non dovrebbero quindi esserci particolari opposizioni.
La storia degli ultimi quindici anni, in particolare dopo il fallimento di Lehman, e, ancora di più, quelli seguiti al Covid e al lockdown sembrano raccontare un’altra storia. Le politiche monetarie hanno aiutato molto più che proporzionalmente “i mercati” e chi ci investe delle famiglie. Tant’è che ci si è chiesti se non fossero politiche per ricchi mascherate da politiche per poveri. Uno dei sintomi più comprensibili di quanto successo si regista nel settore immobiliare; acquistare una casa o pagare un affitto oggi assorbe una percentuale di reddito molto superiore. Sappiamo per certo, per esempio dalla crisi delle banche regionali americane, che l’aumento dei tassi è un rischio critico per interi comparti della finanza. Sappiamo anche che la promessa non mantenuta all’americano medio dopo il 2008 è stata un fattore decisivo per la vittoria di Trump. In questo caso lo sappiamo per i tanti accenni all’aumento delle disuguaglianze espressi sul finire della presidenza Obama dall’allora presidente della Fed, Janet Yellen, oggi segretaria al Tesoro dell’Amministrazione Biden.
Con la disinflazione in atto si discute di quello che occorre fare “dopo” e tutto cospira a un innocuo aumento del target di inflazione: con poche controindicazioni, benefico se non inevitabile. La storia degli ultimi due anni e un trimestre invece presenta qualche controindicazione tutt’altro che innocua.
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