L’inflazione negli Stati Uniti a novembre ha raggiunto il livello più alto dal 1982 con un incremento dei prezzi rispetto a un anno fa del 6,8% . L’inflazione “core”, che esclude alimentari ed energia, invece si è attestata al 4,6% al livello più alto dal 1991. La progressione, con un’inflazione passata negli ultimi mesi dall’1,1% al 6,8%, è la peggiore dalla metà degli anni ’70. Sono numeri che fotografano una situazione eccezionale che non si vedeva da due generazioni. In alcune città degli Stati Uniti i numeri sono peggiori e già superiori al 7%. 



È sempre interessante andare a prendere i singoli beni: i prezzi della carne sono saliti del 16% e quella del manzo di oltre il 20%. I prezzi della benzina sono più alti di quasi il 60%, quelli delle auto usate del 30%. L’inflazione subita dal ceto medio è peggiore di quella fotografata dall’indice.

La Federal Reserve settimana scorsa ha abbandonato la narrazione di un’inflazione transitoria; il fatto che l’Amministrazione Biden da un paio di settimane sia impegnata a convincere i contribuenti che dopo tutto non è così male e forse è addirittura positivo sembra confermare che di transitorio non c’è proprio niente. I fattori che spingono l’inflazione sono strutturali: guerra commerciale, sfaldamento delle catene di fornitura globali, investimenti in fonti energetiche tradizionali, economiche ed efficienti schiacciati sui minimi per la gioia degli ambientalisti e delle società produttrici di gas e petrolio. Gli ampissimi sussidi in America determinano una situazione di cronica difficoltà per le imprese a trovare personale. Segnaliamo che i salari reali a novembre sono scesi per l’ottava volta di fila. 



Questi numeri, prima ancora che essere un problema “economico”, sono un problema politico e sociale; se escludiamo i fedelissimi, l’americano medio non può essere contento. Il mercato ieri ha reagito positivamente perché si era fatta strada l’ipotesi che il dato dell’inflazione di novembre potesse essere peggio delle attese e sfondare il 7%. Il sospiro di sollievo non può durare all’infinito perché l’accelerazione, mese dopo mese, suggerisce numeri peggiori. Moltissime aziende, come da abitudine, aggiorneranno i listini a valere dal primo gennaio; i primi mesi del 2022 daranno la vera dimensione del fenomeno facendo emergere tutto quello che finora è rimasto sotto la superficie.



In questo scenario la Fed, incalzata da un malcontento montante, rischia di dover alzare i tassi in una fase economica debole. I media cinesi ieri hanno spiegato che l’economia interna è in una situazione di minore domanda, shock nell’offerta e indebolimento delle attese. L’effetto delle politiche monetarie espansive sulle valutazioni di azioni e obbligazioni e, a cascata, sui settori dell’economia reale più adiacenti alla finanza, come l’immobiliare, è innegabile. L’incremento dei prezzi però arriva da fattori esogeni alle politiche delle Banche centrali: le politiche energetiche, la guerra commerciale e le tensioni sulle catene di fornitura globale anche per effetto della pandemia sono fattori esterni alle politiche di immissione di liquidità. 

La Fed potrebbe avviare un percorso di rialzo dei tassi in una fase economica debole e incidere solo marginalmente sull’inflazione. In Europa tutto questo è ancora più evidente perché l’incremento dei prezzi del gas degli ultimi dodici mesi, saliti di sei volte, non ha nulla a che fare né con la Fed, né con la Bce. Una compressione della domanda, per esempio per un giro di vite sui lockdown, darebbe un sollievo temporaneo e invece peggiorerebbe le prospettive di medio termine.

Una fase di rialzo dei tassi in un contesto in cui l’inflazione riflette spinte esogene sarebbe complicato da gestire. L’unica vera soluzione all’inflazione, tanto più in un contesto di guerra commerciale, è aprire le fabbriche. I Governi che riusciranno ad aprire un percorso positivo in questo senso risolveranno il problema, gli altri no. Inutile dire che con i costi energetici attuali l’Italia è fuori da questo gioco.

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