L’inflazione a giugno negli Stati Uniti ha sorpreso al ribasso: 3,0% contro attese di 3,1% e rispetto al 3,3% di maggio, fermandosi al minimo da giugno 2023. Il dato mensile, rispetto a maggio, è stato negativo come non si vedeva dal 2020. Dopo il dato le probabilità di un taglio a settembre della Fed sono salite a oltre il 90% e oggi vengono scontati altri due tagli entro la fine dell’anno; mercoledì venivano scontati invece solo due tagli per l’anno in corso. L’attenzione degli investitori in queste settimane si è progressivamente spostata dai prezzi al mercato del lavoro; l’inflazione infatti scende e i tempi dei tagli diventano una derivata dello stato di salute dell’occupazione.
Questa settimana Powell, nel corso delle audizioni al senato e alla Camera, ha posto l’accento sul rallentamento del mercato del lavoro. In un quadro di rallentamento dell’inflazione le controindicazioni a tagli dei tassi scompaiono tanto più se l’occupazione si indebolisce.
Il dato sull’inflazione ha dato il via a un indebolimento del dollaro, a un rialzo dell’oro e a una discesa dei rendimenti delle obbligazioni. Di quanto successo ieri sui mercati si può notare un calo dei rendimenti sulle obbligazioni governative più pronunciato sulle scadenze brevi rispetto a quelle lunghe. Gli investitori rimangono scettici sulle prospettive di riduzione dei tassi e dell’inflazione nel medio periodo.
L’economia americana rallenta con un deficit pubblico superiore all’8% e una liquidità abbondante sui mercati. Ipotizzare che la politica americana inizi un processo di consolidamento fiscale con l’occupazione che rallenta non è affatto scontato. Se il rallentamento arriva con il deficit ai massimi degli ultimi decenni è inevitabile chiedersi dove possa andare nei prossimi anni e quale possa essere l’inflazione di uscita della prossima ripresa del ciclo. Se questi sono i termini della questione ci si può spingere oltre e chiedersi chi possa assorbire, e soprattutto a che tassi, le emissioni di debito americano nel medio periodo.
Il prossimo Presidente, chiunque esso sia, dovrebbe, teoricamente, provare a normalizzare il deficit rischiando però di esasperare il rallentamento e di mettere sotto ulteriore pressione settori, si pensi all’immobiliare, che mostrano già segnali di stress. Potrebbe in alternativa tenerlo a questi livelli o espanderlo per rilanciare la crescita. In questo caso diventerebbe difficile evitare un’altra fase inflattiva appena finita la “crisi”. In ogni caso gli Stati Uniti hanno ogni interesse ad attrarre risparmi e liquidità, per sostenere debito e deficit problematici, e a risolvere gli squilibri commerciali. Ciò crea le condizioni per un approccio meno morbido anche con gli alleati.
Questi elementi, il deficit elevato e il rallentamento economico, mettono il prossimo Presidente americano sotto un possibile “ricatto dei mercati” esattamente com’è accaduto in questi anni in Europa o come accade in questi giorni alla Francia. Questa è una novità che minaccia di condizionare la politica americana, per quanto strano possa sembrare per il Paese che emette la valuta di riserva.
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