L’inflazione negli Stati Uniti a febbraio è salita al 3,2% dal 3,1% di gennaio battendo leggermente le stime che si attendevano una conferma del dato del mese precedente. L’inflazione “core”, al netto degli alimentari e dell’energia, è scesa leggermente dal 3,9% di gennaio al 3,8% di febbraio e rimane ampiamente sopra al 2%. I costi per l’abitazione salgono ancora del 5,7%; il mercato immobiliare non sta rallentando e i prezzi continuano a salire.



Dopo uno dei cicli di rialzi dei tassi più repentini degli ultimi decenni questi dati sono sorprendenti; l’inflazione è dura a morire e non si vede un ritorno alla normalità nel breve. Nel frattempo il mercato del lavoro americano rimane in piena occupazione e il Pil sale; soprattutto continuano a salire i listini azionari. Anche ieri, con un dato sull’inflazione più alto delle attese, gli indici sono saliti. Questo è l’aspetto più singolare.



Lo scenario che si sta delineando non è un ritorno a un’inflazione al 2% o poco più e questo significa che i tassi rimarranno più alti. Ci si dovrebbe attendere a questo punto, soprattutto dopo quello che si è visto sugli indici americani nelle ultime settimane, un movimento opposto con gli investitori che si arrendono all’evidenza e accantonano lo sperato cambio di politica monetaria. L’andamento del mercato immobiliare e anche quello dei listini confermano le dinamiche inflative in atto e di questo bisognerebbe tenere conto. Il mercato, invece, continua a prezzare tre tagli dei tassi prima della fine dell’anno.



Le attese su un cambio di politica monetaria hanno migliorato le condizioni finanziarie, hanno fatto salire gli indici e hanno creato un effetto fiducia e ricchezza che spinge i consumi. Tutto bellissimo se non che in una fase di crescita economica ciò significa nuova inflazione e forse persino una seconda ondata inflativa. In questo quadro la Fed si starebbe producendo in un secondo errore di politica monetaria. Il primo è stato l’indugio, di fronte alla marea che montava, ad alzare i tassi nella primavera del 2021 che ha prodotto la peggiore ondata inflattiva delle ultime due generazioni. Il mercato sale nonostante l’inflazione sia più alta delle stime; è la prova che gli investitori dubitano della volontà della Fed di rientrare l’inflazione.

Oltre a una crisi economica che per ora non si vede non ci sono molti modi per far rientrare i prezzi. Negli ultimi quattro anni si è visto di tutto, dai lockdown che paralizzavano l’economia alle riaperture violente passando per guerre e crisi commerciali e geopolitiche. Non si può escludere niente, ma quello che si osserva in queste settimane negli Stati Uniti non è una crisi; l’occupazione rimane ai massimi e gli incrementi salariali sono stati reali e sostenuti. Non si può pensare che la Fed tagli con il mercato del lavoro in queste condizioni.

La Fed <potrebbe, invece, fermare una corsa dei listini che è senza sosta e che alimenta l’inflazione e non solo. Per fare questo, ieri ne abbiamo avuto l’ennesima riprova, questo livello di tassi non basta. La questione di fondo non è economica ma politica. Il modello che si alimenta evita una crisi al prezzo di squilibri che montano mentre si creano montagne di capitale finanziario di dubbia solidità che tengono in ostaggio il sistema; poveri e ceto medio, in questo quadro, sono usati come scudi umani per evitare che salti il modello con i rialzi dei tassi. Le “borse” sono salvate dalla stampa di moneta e da debiti pubblici, che si scaricano sui contribuenti, che salgono a ritmi mai visti. Tutto, incluse le guerre, va bene pur di non far rientrare gli squilibri. Il corrispettivo politico di questo modello è l’ipertrofia degli Stati che tassano, quasi letteralmente, l’aria che si respira, che condizionano il possesso delle case o il credito a parametri “green” e che si avventurano in strumenti pericolosi per i diritti politici come le valute digitali. Questo è il prezzo degli indici azionari da record.

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