Il dato effettivo sull’inflazione tendenziale a luglio negli Stati Uniti è stato pari all’8,5%, con il Consensus Bloomberg che aveva stimato un lieve margine in eccesso, e cioè l’8,7%, avendo quindi saggiato molto bene la direzione anche qualitativa del rallentamento mensile. Al contrario, nel mio intervento di stima sono andato incontro a un voluminoso errore quantitativo e qualitativo, pari cioè all’1% in sovrastima, dato che avevo ipotizzato il 9,5-/9,6% con intervallo minimo al 9,3%.



Fatte comunque le premesse essenziali dell’accaduto, cerco di illustrare ciò che considero spiegazioni con i miei strumenti di macroeconomia quantitativa e col più generale bagaglio culturale che mi sento di percorrere; in sostanza, resto ancora sorpreso dal dato, in quanto a livello analitico vuol dire che a luglio i prezzi in media siano diminuiti in modo assoluto e non solo tendenziale e ciò mi sembra del tutto singolare.



Mi spiego ancora meglio riferendomi al petrolio, additato come fattore che ha causato l’inversione di tendenza in quanto i prezzi dell’energia sono risultati in calo negli Stati Uniti a luglio; si badi bene non un aumento più contenuto, bensì un calo assoluto che ha fatto sì che in media il paniere inflattivo Usa a luglio registrasse una variazione congiunturale negativa.

E qui, per onestà intellettuale devo affermare che le cose iniziano a sembrarmi dubbie, in quanto le quotazioni del petrolio per in primi 19 giorni di luglio hanno registrato un prezzo medio di 108 dollari al barile Wti, valore congruo con incrementi tendenziali del paniere pari a 0,8-0,9 punti percentuali; al contrario gli ultimi dieci giorni di luglio il prezzo del petrolio è sceso in maniera veloce sotto i 100 dollari al barile Wti, pervenendo il 29 luglio fino agli 88 dollari al barile Wti. 



È solo con tali valori ultimi che si può giustificare una variazione del livello dei prezzi del paniere complessivo dei beni pari a zero, avendosi la diminuzione assoluta dei prezzi energetici; insomma, secondo me è stata messa in atto una politica regolamentare e di persuasione ai market movers grandi e medi dell’energia di tenere conto nei loro contratti di luglio di un prezzo “calmierato”, in maniera tale da incidere sull’indice complessivo, e tutto questo nell’ottica di mesi a venire basati sulla stabilizzazione e discesa delle quotazioni del greggio.

La Casa Bianca, i suoi dipartimenti più o meno sotto traccia hanno implementato politiche regolamentari non esplicitate nella loro vera dimensione, perlomeno al momento, in quanto sennò si sarebbero create turbolenze speculative; in sostanza è un meccanismo per prendere tempo, in attesa che il “mostro” inflattivo inizi veramente a declinare; in sé queste manovre – un po’ sovradimensionate anche dalla raccolta dati inflattivi che viene pubblicata alla fine della prima decade del mese e permette quindi “se lo si vuole”, di sgonfiare un po’ anche i prezzi degli ultimi cinque giorni di riferimento del mese oggetto di analisi – sono efficaci se il trend del fenomeno è analizzato con correttezza, ma diventano pericolose se sono scommesse per prendere fiato, tempo.

La mia sensazione del momento è pertanto che le “mosse” quantitative e regolamentari, del tutto leciti e accettabili in sé, siano solo espedienti per prendere fiato, e quindi secondo me già da agosto ma soprattutto da settembre in avanti ciò che hai tenuto sotto controllo oggi ti sfugge in seguito; altrimenti detto, senza vere variazioni delle quotazioni del petrolio che lo portino in maniera standard a 80 dollari al barile Wti o in quest’area di riferimento e verso i 73 dollari al barile, già da agosto comparirà un triste segno di incremento del tasso inflattivo; incremento dovuto molto a ragioni di composizioni matematiche degli indici, ma che in ultimo tengono conto dei movimenti di fondo dei fattori.

A tal proposito, vorrei solo rimarcare che nel mondo senza inflazione, cioè quello sotto il 2% dei primi mesi del 2021 a scorrere indietro negli anni, la quotazione standard del barile Wti di petrolio era pari a 55-60 dollari, sempre tale prezzo frutto del tiro alla corda tra Stati Uniti da una parte e Russia e Arabia Saudita dall’altra; ora si confrontino questi livelli di prezzo con gli attuali e vediamo in maniera immediata crescite dei prezzi della materia energetica pari in media a un buon 80% che si sta scaricando a valle su tutti i settori; del tutto ovvio che l’inflazione corre con solo come incrementi, ma anche come tempi per ottenerli, a mano a mano che aggredisce l’intero corpo sociale.

Infatti, la stessa mossa del rilascio di un milione di barili al giorno dalle riserve strategiche non è altro un annuncio che serve a impressionare in modo positivo il cittadino medio, contemporaneamente consumatore e titolare di una qualche forma di reddito, sul fatto che la nazione ha tutti gli strumenti necessari per domare l’innalzamento dei prezzi energetici. Ma tutto questo è falso nella sostanza, e lo stesso Presidente Biden ne è perfettamente consapevole, compreso del tutto ovvio l’intero apparato dell’Amministrazione statunitense, in quanto un milione di barili al giorno è una goccia nel mare dei fabbisogni energetici giornalieri degli Stati Uniti, e le stesse riserve strategiche, sebbene di ammontare imponente, non sono paragonabili nemmeno a un giacimento di piccole dimensioni, in quanto se gli Stati Uniti dovessero attingere solo ai circa 600 milioni di barili della riserva strategica stante il loro consumo quotidiano lordo di circa 21 milioni di barili, le esaurirebbero nemmeno in capo a due mesi.

Quindi, la morale della favola, è che il dato inflattivo tendenziale di luglio che ha presentato questa importante inversione di tendenza sia propagandistico ai fini elettorali di novembre e un ausilio concesso ai propri mercati finanziari, ma che le ragioni di fondo non siano al momento nella gestione piena degli Stati Uniti, e qui vado sempre a parare alle tensioni geopolitiche con la Russia in primis.

Tra le altre cose, già da questa prima decade di agosto il petrolio è ritornato a lambire quota 95 dollari al barile, e secondo me senza variazioni strutturali delle tensioni di fondo osserveremo di nuovo a giorni il prezzo sopra i 100 dollari, e a quel punto gli operatori del mercato energetico statunitense si faranno pagare con gli interessi ciò che hanno concesso a luglio “in maniera più o meno concordata con la Casa Bianca”, avendosi così ad agosto un pieno ritorno al 9% del tasso inflattivo.

Emerge dalla mia analisi la convinzione che al momento gli Stati Uniti non hanno una politica della nazione chiara e condivisa, ondeggiano insomma tra le varie pulsioni sociali, economiche e finanziarie tra esse molto contrastanti, fino ad arrivare a proposte politiche completamente eccentriche tra di esse; gli stessi apparati sono coinvolti in questa girandola dei dubbi e delle incertezze, compresa ovviamente la Fed.

Lo stesso fatto che la Banca centrale non faccia previsioni nemmeno a sei mesi del tasso inflattivo atteso, ma attenda ciò che accade giorno per giorno, la dice lunga sul reale controllo del ciclo economico da parte delle autorità monetarie, e in aggiunta in maniera più subdola e sottile non fare previsioni ma mettersi alla finestra attendendo ciò che accade fa perdere alla lunga credibilità; se qualcuno non fosse d’accordo, ci si ricorda come nel mondo a inflazione bassa sotto il 2%, la Fed era sontuosa nel prevedere i fenomeni non solo in maniera quantitativa, ma anche qualitativa? Ci si rende conto che da un po di mesi a questa parte siamo ridotti ai dot plot del Fomc? I quali sebbene siano previsioni dei governatori, sono tra loro indipendenti e slegate e senza l’autorevolezza dell’istituto centrale che dia il suo imprimatur.

La conclusione è la seguente: quel che se ne ricava è che oramai la Fed ha paura del livello inflattivo e della sua mancanza di controllo dello stesso, in quanto i fattori scatenanti risiedono nel mondo al di fuori degli Stati Uniti, mentre la Fed di due anni fa analizzava il pianeta intero come una succursale della nazione; la palla incendiaria è in sostanza, com’è giusto che sia, nelle mani della Casa Bianca.

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