L’inflazione americana è salita al 3,5% dal 3,2% di febbraio; il dato al netto delle componenti più volatili, alimentari ed energia, è rimasto fermo al 3,8% del mese precedente. È stato il terzo mese consecutivo con un’inflazione sopra le attese. Ieri mattina, prima della pubblicazione del dato, il mercato scontava il primo taglio dei tassi della Fed a giugno; in serata le attese si erano spostate a luglio o oltre. Per il 2024 il mercato si attende ora uno o due tagli contro i sei attesi a metà dicembre.



Con questi dati sull’inflazione e sul mercato del lavoro la Fed non può tagliare i tassi e questo è il minimo che si possa dire. Larry Summers, già segretario del Tesoro sotto Obama e prima ancora capo economista alla World bank, ieri sera dichiarava su Bloomberg Tv a proposito della banca centrale americana: “Dobbiamo prendere seriamente in considerazione la possibilità che la prossima mossa possa essere al rialzo piuttosto che al ribasso”; “sulla base degli elementi attuali un taglio a giugno sembra possa essere un errore pericoloso e grave, simile agli errori che la Fed ha fatto nell’estate del 2021”. La Fed, secondo questa analisi, starebbe compiendo il secondo errore di politica monetaria dopo il ritardo nel rialzare i tassi con l’inflazione che montava nel 2021.



La Fed non alza i tassi da luglio 2023 nella convinzione che, con i tassi attuali, l’inflazione sarebbe automaticamente scesa all’obiettivo del 2%. Sono passati otto mesi e l’inflazione non solo rimane vicina al 4%, ma mostra qualche segnale di ripartenza. La conclusione, anche per importanti banche d’affari come Bank of America, è che la Fed stia dimostrando di voler tollerare livelli di inflazione più alti. Ogni mese che passa con l’inflazione a questi livelli e senza ulteriore aumento dei tassi è una conferma di questa tesi e la prosecuzione di una politica monetaria che è tutto fuorché restrittiva con i mercati liberi di anticipare, come successo negli ultimi mesi, tagli che non si materializzano.



Si potrebbe obiettare che l’inflazione al 4% non è una tragedia se non fosse che il numero sintetico non racconta tutta la verità ed è una convenzione con alcuni limiti. Qualche settimana fa tre economisti di Harvard, tra cui Larry Summers, e uno del Fondo monetario internazionale hanno pubblicato uno studio in cui hanno dimostrato che se l’inflazione fosse calcolata come si è fatto fino al 1983, includendo i costi dei prestiti, nel novembre 2022 si sarebbe pubblicata un’inflazione del 18%. Un livello da Paese in via di sviluppo. L’incremento dei prezzi delle case, che non entra più direttamente nel calcolo, contribuisce a restituire un’inflazione “percepita” molto diversa a seconda delle classi di reddito. L’impoverimento avvertito da una larga fetta della popolazione americana, nonostante gli incrementi salariali e una disoccupazione ai minimi, si spiega con la grande diversità che l’aumento dei costi ha avuto a seconda delle fasce di reddito. Non risolvere gli squilibri sul mercato del lavoro oppure, vedendola in un altro modo, risolvere gli effetti di una politica monetaria espansiva importando manodopera a basso costo alimenta, sotto la superficie dei dati sintetici, squilibri che non salgono mai in superficie. L’acquisto di una casa o di una macchina a rate e molto più costoso anche se il dato ufficiale dell’inflazione non l’ha mai “fotografato”.

L’economia americana beneficia di politiche fiscali espansive, con i deficit ampiamente superiori a livelli pre-Covid, e di prezzi dell’energia competitivi. La reindustrializzazione dell’America non è un mito ma una realtà. Questo non è il caso dell’Europa che ha prezzi dell’elettricità, a seconda degli Stati anche quattro o cinque volte superiori a quelli americani, e che è in una posizione commerciale molto più fragile ed esposta, per esempio, a una guerra commerciale con la Cina. La possibilità che la Bce tagli prima della Fed non è un caso di scuola. Per l’Europa vorrebbe dire gestire gli effetti, anche inflattivi, di un cambio più debole ed esporsi alle “ire” della prossima Amministrazione americana.

Trump, se venisse eletto, con la sua piattaforma di riduzione del deficit commerciale difficilmente vedrebbe bene una svalutazione dell’euro e questo significa più dazi. Se l’Europa taglia prima della Fed l’urgenza di recuperare margini sui costi energetici e industriali diventa improrogabile. Altro che “rivoluzioni” green a colpi di decine di miliardi di incentivi all’anno pagati da tasse sulla CO2 imposte alle imprese.

Dal punto di vista sistemico, invece, anche in America il rischio si sposta sulle obbligazioni. Se l’idea che la Fed e il sistema americano tollerano, strutturalmente, livelli di inflazione più alti allora, prima o poi, chi compra obbligazioni chiederà tassi più alti.

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