Giovedì è stato diffuso il dato tendenziale annuo dell’inflazione Usa riferito al mese di luglio, risultato essere del 3,2%, quindi inferiore alla stima riportata da Bloomberg pari al 3,3% e che raccoglie le previsioni di operatori del mercato di Wall Street. Nel mio intervento di stima di una settimana fa, avevo indicato, invece, un valore puntuale del 3,6% con valore minimo dell’intervallo del 3,3%; stima pertanto congrua e attinente, ma non precisa, in quanto avevo ipotizzato un incremento mensile più sensibile.
A livello poi dell’inflazione core, e cioè quella depurata dai beni alimentari ed energetici, si è avuto un 4,7% tendenziale a fronte del 4,8% dello scorso mese; sottolineo subito che questa distinzione tra inflazione complessiva e core mi lascia sempre un po’ scettico; in sostanza, la vedo più come una distinzione operativa senza forti basi teoriche, della quale la Fed si è servita dal 1990 in avanti essendo entrati in un contesto oramai post-inflazione degli anni Settanta e Ottanta, il quale aveva portato con sé profondi cambiamenti al paradigma macroeconomico della nazione e del mondo intero.
Piuttosto, quello che da subito va evidenziato è che con stretta e innalzamento dei tassi l’inflazione sia ripresa a crescere; come mai siamo in presenza di questo appariscente cortocircuito?
La ragione, almeno per il sottoscritto – e come debitamente evidenziato nel lavoro di stima – risiede nella crescita di nuovo robusta del prezzo del petrolio; anzi, si può affermare già da ora che visti i valori in campo sopra gli 80 dollari al barile Wti e praticamente con il raggiungimento nella giornata del 09 agosto degli 85 dollari, l’inflazione tendenziale di agosto ha come valore minimo molto probabile un 3,5%, essendo rimessi valori tra il 3,5% e il 4% alla permanenza per tutto agosto di questi livelli.
Del tutto evidente, poi, che valori superiori agli 85 dollari al barile per più di 10 giorni in agosto porteranno a valori ancora più alti; a questo punto, però, per una stima puntuale e di intervallo tocca attendere i dati per il mese intero di agosto. Quello che si può dire con certezza però a oggi è che l’inflazione non è più il 3,2%. ma già è in un intorno del 3,5%; insomma, inflazione che ha ripreso a crescere, pur in presenza di stretta sui tassi di interesse.
A questo punto, va fatta una brevissima digressione teorica, e cioè che la relazione che innalzamenti dei tassi di interesse blocchino l’inflazione è incardinata sul modello di equazione che si ipotizza sia valido per quel determinato periodo; in sostanza, i tassi con i loro innalzamenti tendono a funzionare con eccessi di domanda aggregata, ma questa condizione a sua volta è necessaria ma non sufficiente; si richiede cioè in sequenza, come ulteriore vincolo, che la stretta dei tassi di interesse non faccia aumentare la velocità di circolazione della moneta, in quanto in tal modo l’effetto originario di stretta dei tassi è annullato e in alcuni casi più che compensato, in eccesso, dall’incremento della velocità di circolazione della moneta.
Appunto, questo è uno dei casi in cui la velocità della moneta aumenta, quando cioè ci sono variazioni di fattori dell’offerta esogeni al funzionamento del modello economico. Il fattore esogeno che ora ha cominciato di nuovo a spingere è infatti il petrolio, in attesa però di quello a questo punto più delicato e ingestibile e cioè il grano; pensare, infatti, che gli Stati Uniti possano andare immuni da una tempesta dei prezzi sui mercati mondiali del grano è pura fantasia, anche se probabilmente sono esportatori netti; anzi, proprio perché esportatori netti, l’incremento di domanda mondiale di grano, a causa delle strozzature della guerra in Ucraina con accordi di transito del grano al momento saltati e non rinnovati, non farà altro che fare aumentare e di molto i prezzi di sbocco sui mercati mondiali, mettendo così alla fine in tensione anche il mercato interno degli Usa.
Ma per ora, per questa materia prima ci sono ancora due o tre mesi di relativa calma, anche in presenza di condizioni geopolitiche di scontro; il prezzo del grano in tali condizioni riceverà sollecitazioni sempre più marcate, all’inizio avvertibili al minimo e poi sempre più intense; cosicché se entro tre o quattro mesi dovessero permanere condizioni strutturali negative dei mercati internazionali e della loro logistica, si aprirebbero poi veri e propri scenari di incrementi del prezzo del grano severi e prolusivi a veri e propri drammi.
Il petrolio in questo periodo sarebbe soggetto sia a una dinamica interna propria del relativo mercato, che tra le altre cose non è più inquadrabile con analisi macroeconomiche tout court, ma che al contrario andrebbe affiancata a ricerche e analisi del complessivo scenario geopolitico, ma poi, a poco a poco col passare dei mesi risentirebbe delle dinamiche di strozzatura del mercato del grano.
Per di più sui mercati dei prodotti petroliferi si scatenerebbe una lotta speculativa di intensità ben peggiore che sul mercato del grano, e questo anche per l’esistenza di tanti accordi politici, etici, territoriali; ma nonostante tante valvole di sfogo, la pressione dei prezzi sull’intero sistema mondiale sarebbe sensibile e inarrestabile.
Torniamo perciò ex abrupto al ruolo e agli strumenti della Fed: tassi, liquidità, moral suasion ma nulla di più; il deserto operativo delle proprie leve, un po’, anzi quasi del tutto simile agli interventi e alle possibilità della Bce; l’unica differenza è la valenza del Presidente dei due istituti; valevole e pregevole Powell, insufficiente e confusionaria la Lagarde, non all’altezza insomma.
In più chiare lettere, i banchieri centrali, soprattutto i banchieri di banche centrali fondamentali e rispettate come la Fed, la Bce, ecc., tendono a far divenire un assunto operativo, e cioè la leva dei tassi di interesse, quasi come un rito religioso e sacrale. Purtroppo, in teoria così non è se non sono soddisfatte un insieme di condizioni fondamentali; e in questo periodo le condizioni fondamentali sono il petrolio e per ora solo l’ombra dei rivolgimenti sul mercato mondiale del grano.
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