L’inflazione americana a dicembre è salita al 3,4% dal 3,1% di novembre rispetto ad attese del 3,2%. L’inflazione “core”, al netto di alimentari ed energia, è stata del 3,9% dal 4,0% del mese precedente. Il dato sintetico contiene, come da molti mesi, voci con andamenti opposti. Le spese per l’abitazione a dicembre erano ancora in rialzo del 6,2% e, soprattutto, i servizi sono saliti del 5,3%.
Il dato pubblicato ieri non sembra aver cambiato le aspettative degli investitori. Le attese sui tassi sono rimaste invariate e i principali commentatori hanno concluso che è improbabile che le attese della Federal Reserve cambino. Rispetto ai dati di dodici mesi fa, quando l’inflazione era sopra il 6%, il dato di ieri appare rassicurante. Per qualche mese poi si avrà ancora un effettivo positivo da base di comparazione sui beni energetici.
È presto per concludere se lo scenario immaginato dal mercato negli ultimi mesi del 2023 sia ancora valido. Gli investitori hanno scommesso su un rallentamento economico moderato e su un netto cambio di politica monetaria. Ancora ieri il mercato assumeva cinque tagli dei tassi nel corso del 2024. Ci sono voluti più di sei mesi nel 2021 perché i tassi di interesse recepissero la salita dell’inflazione.
Per avere un quadro completo di quello che sta accadendo bisogna allargare il campo. Gli Stati Uniti viaggiano a un deficit su Pil vicino all’8% e non c’è né una pandemia, né una guerra che li coinvolga direttamente. Non si ricordano fasi storiche simili. Nell’ultimo trimestre del 2023 il debito pubblico americano è salito di 1.000 miliardi di dollari. I salari in America continuano a salire. Prendiamo per esempio l’ultimo indice sui salari pubblicato dalla Fed di Atlanta che segnala un incremento medio del 5,2% a dicembre in linea con il mese precedente. In questo quadro la politica americana sta discutendo di tagli fiscali per 100 miliardi e di ulteriori cancellazioni dei prestiti per lo studio. L’attuale politica fiscale americana non è deflattiva e non è indifferente per la crescita nominale del Pil. I salari crescono in un quadro di strutturale deficit di lavoratori che deriva da trend demografici impossibili da invertire nel breve periodo.
La diminuzione dei tassi di interesse nata sulle attese del calo dell’inflazione e la decisione della Fed di fermare il rialzo dei tassi completa il quadro. A meno di una recessione si potrebbe concludere che in questi mesi si stiano piantando i semi di una seconda ondata di inflazione che oggi è tenuta, almeno in parte, a bada dai bassi prezzi del petrolio e del gas. Dall’Europa e dall’Italia, in particolare, il rischio di un abbaglio è alto. I dati pubblicati dall’Eurostat sull’andamento dei salari in Europa fotografa, ancora nel terzo trimestre del 2023, l’anomalia italiana che spiega anche il successo del nostro Paese sulla lotta all’inflazione. I salari in Italia crescono molto meno che nel resto d’Europa e la perdita del potere d’acquisto subita dagli italiani negli ultimi due anni deprime la domanda interna e i prezzi. Questa però non è la regola dei “Paesi occidentali” ma l’eccezione. Dall’Italia è più difficile leggere lo scenario.
Il punto di caduta di questa congiuntura probabilmente non è immediato. La questione però è chiara; se la lotta all’inflazione non è conclusa e la Fed ha tolto il piede dal freno troppo presto prima o poi gli investitori chiederanno tassi più alti. A quel punto bisognerà decidere tra la “tranquillità” sul mercato dei bond e più inflazione e perdita del potere d’acquisto.
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