L’inflazione a gennaio negli Stati Uniti, comunicata ieri dal dipartimento del lavoro, è scesa al 3,1% dal 3,4% di dicembre contro attese di un rallentamento più marcato al 2,9%. L’inflazione “core”, al netto di alimentari ed energia, invece è stata esattamente identica al mese precedente, 3,9%, e superiore alle attese del 3,7%. Il dato sintetico tiene insieme settori con andamenti molto diversi; al calo della componente energetica (-4,6%) o delle auto usate (-3,5%) si contrappongono i rialzi dei consumi alimentari fuori casa (+5,1%), dell’abitazione (+6,0%) e dei trasporti (+9,5%).
I mercati hanno reagito vendendo azioni e obbligazioni e comprando dollari. Le attese sul primo taglio dei tassi della Fed si sono spostate in avanti da maggio a giugno e i tagli attesi per il 2024 sono passati da quattro e mezzo a meno di quattro. Solo all’inizio di gennaio il primo taglio era atteso per marzo e i tagli previsti per il 2024 erano sei. L’inflazione scende, ma molto più lentamente di quanto ci si attendesse; nei servizi, in particolare, rimane alta. L’unica cautela che si può avere nella lettura dei dati di ieri è la difficoltà delle stime per il mese di gennaio perché molti listini vengono aggiornati con l’anno nuovo. Anche questa cautela non sposta il dato di fondo. L’incremento dei servizi al netto dell’abitazione (+6,4% su gennaio 2023 e +0,9% su dicembre 2023), tutto fotografa tranne che uno scenario di deflazione. Questa componente, i servizi al netto dell’abitazione, ha registrato l’incremento mensile più alto da aprile 2022.
Il mercato, a partire da autunno 2023, ha sposato la tesi della fine dell’inflazione e del cambio di politica monetaria delle banche centrali. A meno di due mesi dall’inizio dell’anno le attese sul primo taglio della Fed sono già state portate avanti di tre mesi. Il Pil americano sorprende al rialzo, la politica fiscale rimane espansiva, le condizioni finanziarie hanno anticipato l’effetto di un taglio dei tassi anche se non c’è stato. La spesa per le costruzioni non residenziali negli Stati Uniti continua a evidenziare l’esplosione della componente relativa al settore manifatturiero; è l’evidenza che il rimpatrio delle attività industriali negli Stati Uniti è una realtà che beneficia di costi energetici tra i più bassi del blocco occidentale e di incentivi fiscali robusti. Anche gli ultimi dati sui salari supportano i prezzi.
Lo scenario che si apre, per gli Stati Uniti, è completamente diverso da quello che si era immaginato. Se ne aprono altri, invece, inesplorati. Ieri gli strategisti di Citigroup, riguardo ai tassi, si spingevano a dire che “il mercato dovrebbe prezzare qualche rischio di futuri rialzi” perché l’inflazione non sembra voler ritornare stabilmente al 2%. Evidenziare l’irresponsabilità fiscale americana non sposta il quadro per i prossimi trimestri.
L’Europa è in una situazione diversa. La politica fiscale si avvia alla normalizzazione e diventa restrittiva. L’economia europea sembra di fronte a una transizione che non aiuta i consumi. Due giorni fa il Cancelliere tedesco Scholz dichiarava: “dobbiamo spostarci dal settore manifatturiero verso la produzione su larga scale di materiale per la difesa”. Questa “transizione” che avviene in un quadro geopolitico molto difficile per l’Europa nel breve non spinge la crescita. I tagli della Bce, in assenza di un corrispettivo in America, produrrebbero l’effetto che si è intravisto ieri con il calo dell’euro. Questa è una sfida per la Banca centrale europea.
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