Per il dato inflattivo Usa che verrà pubblicato oggi e riferentesi a ottobre 2022 in tendenziale sull’anno, si stima un tasso del 8,7-8,8% con valore minimo non sotto all’8,3%. Il Consensus Bloomberg di operatori di mercato invece stima l’8,0%-8,1%, quindi con una sensibile differenza rispetto ai valori presentati in questo intervento; per tali motivi, si cercherà di analizzare con cura questa divergenza.
Per fare ciò si devono ricordare alcuni altri valori macroeconomici di fondamentale importanza, e cioè nell’ordine: la prima rilevazione della variazione del terzo trimestre del Pil Usa risultata essere pari al 2,6% in aumento, e poi, in seconda battuta, il PCE, e cioè la spesa personale del consumatore statunitense – sia lorda che core, al netto cioè di alimentari e energetici – dal quale si è potuto ricavare che la spesa dei consumatori ha avuto un incremento nei volumi fisici di circa lo 0,2-0,3%; queste due grandezze hanno fatto affermare a molti in maniera superficiale che l’economia Usa non è in recessione ma ancora con afflato di spinta, sebbene pregiudicato da tutte le strozzature e crisi sull’offerta aggregata; tale ultima affermazione è poi stata corroborata dai dati del mercato del lavoro di ottobre in lieve crescita (di qualche decina di migliaia di unità oltre le attese), con una disoccupazione al 3,5% e con un tasso di partecipazione alla forza lavoro stabile in area del 62%.
Bene, va subito detto che tolta l’appariscenza dei dati presi così come sono, in realtà l’analisi macroeconomica più acuta ne mostra il profondo segnale negativo e recessivo, in quanto una variazione trimestrale del Pil del terzo periodo dell’anno pari a un positivo 2,6% deve fare i conti con un tasso inflattivo medio dello stesso periodo temporale dell’8,3%, e quindi alla fine dei conti si evince chiaramente una crescita solamente nominale del Pil, mentre in termini reali se ne ha una contrazione.
Però quest’ultima affermazione come si concilia con una variazione reale della spesa per consumi personali pari allo 0,3 % mensile e circa all’1,4 % trimestrale? Si concilia col fatto che a fronte di un blando aumento dei consumi su base trimestrale, c’è una caduta dell’8,5% della componente investimenti, dove a mitigare quest’ultimo valore si ha un incremento del 14% delle esportazioni e del 6,5% delle importazioni.
In aggiunta, poi, i dati di lieve incremento del mercato del lavoro sono molto appariscenti e inducono facilmente all’errore di stima, in quanto il mercato del lavoro statunitense è altamente flessibile e deregolamentato rispetto a quello europeo; per essere più chiari, incidono sui dati così come vengono presi negli Stati Uniti impieghi anche di sole due settimane e via dicendo, mentre il vero cancro si annida nel fatto che un disoccupato con più di 40 settimane senza lavoro esce facilmente dal mercato del lavoro (in Europa abbiamo una modalità di rilevazione e conteggio più severa e strutturale).
In definitiva, la somma di tutti i fattori di cui sopra ci dice che nel terzo trimestre dell’anno gli Stati Uniti stanno sperimentando una caduta del 4-5% del Prodotto interno reale, e quindi recessione che si accompagna a inflazione.
A questo punto è necessaria una breve digressione metodologica per chiarezza di analisi, la quale ci dice che il deflatore del Pil non è del tutto coincidente con l’Ipc – tasso di inflazione standard – e tantomeno con il PCE – spesa per consumi personali; dei piccoli esempi ci mostreranno immediatamente il perché. Dunque, nel Pil si tiene conto delle esportazioni, ma non si tiene conto delle importazioni, e ciò è tutto il contrario per l’Ipc, dove si tiene conto delle importazioni e non delle esportazioni; in sostanza, il cittadino americano può sperimentare nella propria spesa quanto costi in più o in meno una bottiglia di vino italiano ad esempio, ma non subisce influenza alcuna dall’esportazioni di armi in Ucraina che sta conducendo la Nazione. Questa brevissima nota metodologica ci mostra il perché dell’uso di intervalli di variazioni dei vari indici, in quanto tra loro stessi non sono perfettamente coincidenti, anche se hanno perlomeno a livello minimo il 70% dei dati numerici e quantitativi identici.
Da tutto quanto sopra evidenziato di ipotizza perciò come stima del tasso inflattivo Usa per ottobre 2022 e in tendenziale sull’anno un valore dell’8,7-8,8%, in quanto oltre ai valori di base sempre alti del barile Wti di petrolio, la contemporanea decrescita degli investimenti dell’8,5%, data la presenza nelle moderne economie di vaste e diffuse economie gamma, fa sì che il costo medio unitario delle produzioni industriali si innalzi in maniera esponenziale alla riduzione dei ritmi produttivi; del tutto evidente che l’innalzamento dei costi industriali va poi a impattare sui prezzi di vendita al consumo, così come l’incremento dei tassi di interesse diventa immediatamente un costo industriale per le banche che sono costrette a trattarlo con logica di mark-up nella concessione dei prestiti.
Qui però inizia un pericolo velenoso dei nostri tempi, e cioè a dirsi che l’aumento dei tassi di interesse avviene in presenza di una mole di debiti pubblici e privati mai osservata nella storia; si vuole dire cioè che a mano a mano che aumentano i tassi, i bilanci delle istituzioni finanziarie pieni di obbligazioni pubbliche e private iniziano ad andare incontro a perdite gigantesche in conto capitale. Questo è uno dei lati difficili odierni per combattere l’inflazione tramite innalzamento tassi dei federal funds (ricordiamo che dopo l’aumento del 2 novembre siamo oramai al 3,75-4%), ed ecco perché già in un intervento precedente avevo affermato che la Fed dovrebbe fare marcia indietro con la riduzione del proprio attivo di obbligazioni del debito pubblico e private.
Va in sostanza conservata, senza aumentarla, una grande massa di liquidità per aiutare i prenditori di fondi in qualsiasi punto del meccanismo di trasmissione degli impulsi monetari a tenere tonici i corsi azionari e il più possibile quelli obbligazionari, e anche per cercare di non impattare sulla velocità di circolazione della moneta in maniera letale; piuttosto la Casa Bianca e il Congresso hanno la responsabilità di cercare di azzerare o ridurre al minimo qualsiasi disavanzo pubblico per dare efficacia e completezza all’azione della Fed.
Si deve però al tempo stesso affermare che al momento i tassi federal funds non ancorano più le aspettative in maniera conclamata, ma che in qualche modo debbano seguire gli umori del mercato; lo si ribadisce ancora un’altra volta, che stante l’equazione quantitativa di Irving Fisher, i tassi di interesse nell’attuale situazione macroeconomica non hanno un effetto univoco e garantito sul tasso inflattivo generale, anzi un loro inasprimento potrebbe portare a ulteriore inflazione per le cose dette prima; questi sono tutti effetti conclamati con tassi inflattivi dal 9,5-10% all’insù, ed è per tale motivo che oggigiorno la situazione è critica in quanto l’inflazione Usa non è per nulla lontana da tale area.
Resta poi sullo sfondo la dinamica più pericolosa di tutte e per tale verso la meno controllabile dalle autorità degli Usa, ma qui siamo già oltre la Fed per parlare di Casa Bianca e Congresso, e parliamo quindi del petrolio, che oltre ad avere il ruolo preponderante nel meccanismo inflattivo, ha la potenzialità nelle sue dinamiche internazionali di dare seri scossoni iniziali alla fine del dollaro come valuta di riserva mondiale.
Anche questo tema e soprattutto questo è stato sempre al centro dei miei interventi, e cioè che Stati Uniti e Russia devono giungere il prima possibile a un nuovo accordo strategico tra esse, pena il fatto di un disordine globale che lasciato andare per conto suo diventa sempre più severo e ingestibile; sebbene gli Stati Uniti siano i maggiori produttori di gas e petrolio al mondo, sono però al tempo stesso anche i maggiori consumatori delle due risorse citate, il che significa che alla fine per quanto riguarda il gas riescono a essere esportatori netti solo per un 30% rispetto allo stesso volume di esportazioni russe, mentre nel caso del petrolio devono importare il 45% per il loro mercato interno stante il non soddisfacimento della domanda domestica; se a tutto questo aggiungiamo poi che il gas non riesce a sostituire il petrolio in numerose e vaste applicazioni quotidiane (si pensi solamente ai trasporti di ogni tipo), il risultato finale è che gli Stati Uniti sono in balia dell’attuale disordine internazionale, al quale contribuiscono essi stessi per cercare di non perdere il loro ruolo di potenza egemone.
Utilizzando un’immagine molto forte si può affermare che gli Usa stiano mettendo a repentaglio la stabilità mondiale nel loro tentativo di rimanere leader incontrastati a livello planetario; devono invece mettere finalmente mano alla comprensione di un nuovo mondo emerso in maniera appariscente con l’inizio della pandemia Covid-19 e poi continuato con la guerra in Ucraina à mondo che però esisteva già prima nelle sue crisi e tensioni incombenti – e quindi per tale via definire un’architrave di fondo con la Russia, e poi su questa base rifondare un sostituto della globalizzazione prima con un accordo con i Brics e poi in maniera operativa in ambito di G20; da tale punto di vista pertanto il G20 di Bali in Indonesia del 15 e 16 novembre prossimo può costituire la primigenia pietra di un mondo che accede a un cambio di paradigma fondamentale.
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