Il 13 febbraio verrà pubblicato il dato inflattivo tendenziale degli Usa riferentesi a gennaio 2024 e in questo intervento si calcola un valore pari al 3,2%, con intervallo minimo al 3,1%.
Le dinamiche di cui oramai tenere traccia sono ampie diversificate e complesse, dove seguendo un leitmotiv di fondo si ha come maggiore focus di riguardo il mercato internazionale del petrolio; in questi interventi si è sempre seguito e analizzato il mercato Wti ove abbiamo un sostanziale dato medio per circa 20/23 giorni di gennaio 2024 in zona 73 dollari al barile, salvo aversi nell’ultima settimana del mese un dato medio pari ai 76 dollari al barile con punte vicino ai 79 dollari. Questi ultimi valori non aiutano a sgonfiare o per meglio dire ad allontanare dall’area del 3% l’inflazione tendenziale americana, che, va anche ricordato, nei mesi di gennaio e febbraio beneficia di alcuni aspetti d composizione statistica dell’indice, tesi ad aiutare ad abbassarne i valori.
In più va sempre ricordato un deficit federale di bilancio che permane alto ed è la vera causa della crescita del Pil Usa anche nel 2023, con valori annui intorno al 2,8%; dove però tutto questo viene ottenuto con deficit continui in area del 7%; la ricaduta di tutto ciò è la crescita continua del debito pubblico della nazione oramai a livelli dei 34.000 miliardi di dollari, con spese per interessi oramai pari ai 1.000 miliardi annui.
Questa situazione non fa decrescere l’inflazione, ma contribuisce alla crescita del Pil e, finché alcune dimensioni strutturali non mutano, tende a diminuire in maniera reale il peso del debito; solamente che oramai siamo di fronte a valori assoluti veramente imbarazzanti, a fronte dei quali – essendo valori di stock le cifre del debito pubblico – ci si può solo tranquillizzare con la ricchezza della nazione pari a circa 135.000 miliardi di dollari e con il ruolo geostrategico e militare ancora esercitato a livelli di preponderanza da parte di Washington.
Qui di fatto tracimiamo da pure analisi macroeconomiche per andare a impattare nelle tematiche più ampie e complesse delle relazioni internazionali complessivamente intese, per affermare in sintesi che a livello di superficie gli Usa possono ancora continuare a indebitarsi perché ancora il dollaro americano è considerato valuta benchmark degli scambi internazionali, con quote del 72% circa e tenuto in riserva per valori medi del 58% a livello delle banche centrali di tutto il mondo.
La cosa che deve far riflettere a ogni modo è che da una decina di anni, e in maniera più intensa dal 2020 con la comparsa del Covid, sono in atto dinamiche profondamente contrarie al perdurare della supremazia del dollaro e se tali dinamiche non vengono arrestate in maniera energica, già fra tre anni a partire da questi giorni attuali si sperimenteranno le concretezze di un mondo strutturalmente diverso.
Dati gli scenari evidenziati, che permettono al momento di far proseguire gli Usa su un doppio binario di una inflazione accettabilissima – area del 3 o 4% massimo, anche se non ideale sotto il 2% – e di una crescita del Pil del 2,5% medio annuo a fronte di grossi disavanzi e di incremento del debito pubblico, si può affermare che i due attori istituzionali finanziari più importanti del mondo, e cioè la Fed e la borsa di Wall Street, possano al limite cavalcare e gestire la parte più superficiale dei fenomeni dell’economia internazionale, dove oramai le cause più profonde e il modo di affrontarle, compresi i soggetti coinvolti, sono sparsi in giro per il mondo, senza la possibilità di avere un quadro di rifermento chiaro e soprattutto ordinato.
È stato affermato già molte volte che i due mercati più iconici del mondo, a dirsi oro e petrolio, non rispondono del tutto in questo momento a precise regie concordate, anche tra parti avverse; siamo dunque, al contrario, in uno scenario di schermaglie continue e di continua ridefinizione di alleanze più o meno tattiche e opportuniste, che non aiutano a stimare i percorsi futuri maggiormente percorribili.
È per tale motivo che nell’attualità di questi tempi il ruolo della Fed è divenuto sia più difficile e sia più limitato, in quanto le sue azioni di politica monetaria, con in primo piano la gestione dei tassi di interesse. non hanno impatto sulle dinamiche dell’offerta aggregata, soprattuto mondiale, riservandosi così uno spazio soprattutto per la domanda aggregata, dove in tale caso l’impatto giunge perlomeno sulle domande aggregate di mezzo mondo, con diversa intensità di manifestazione e modalità di propagazione; insomma, i tassi di interesse della Fed hanno in questo momento un aumento di efficacia sul versante della politica valutaria a detrimento della politica monetaria stretta; dov’è anche oramai evidente che date le dimensioni e le dinamiche attuali del debito pubblico della nazione, la Fed mai potrebbe superare il livello del 7,5-8% dei tassi, pena la non sostenibilità di aggregati giganteschi anche privati.
Non c’è che dire, stiamo vivendo un mondo maggiormente dinamico e complesso, dove la lotta all’inflazione negli Usa viene di fatto supportata dalla forza internazionale del dollaro americano, e in seconda battuta dalla Fed col ruolo di equilibrare al meglio le tante dinamiche contrapposte e al momento difficilmente componibili; in sostanza, in questo momento alla banca centrale Usa è restata come arma più efficace la gestione e la guidance delle aspettative degli operatori di mercato, mentre gli accadimenti concreti che ineriscono alle grandezze numeriche non sono al moneto dalla stessa controllabili, né stimabili.
C’è un aspetto però poco conosciuto della politica monetaria portata avanti da una banca centrale che abbia credibilità e cioè la sua durata nel tempo opportuna a contrastare effetti avversi esterni, e sarebbe a dire che mentre gli shock esterni, soprattutto quelli sull’offerta aggregata, hanno un parossismo massimo molto breve, all’opposto la risposta della politica monetaria è lunga e duratura nel tempo; l’esempio efficace è quello della malattia breve e intensa nel suo apparire e propagarsi nell’organismo, mentre l’azione della cura e delle medicine è lunga e duratura negli effetti.
Questo è il motivo poco conosciuto della fiducia profonda dei banchieri centrali nell’azione dei tassi di interesse, in quanto qualsiasi cosa accada, per calcolo della probabilità mediana basata sugli venti storici, è di gran lunga più breve dell’azione certosina e lunga, quasi sacra, dei banchieri centrali che hanno come leve la liquidità e i tassi di interesse; le vicende esterne sono estreme e come fiamma di fuoco, divampano in fretta, mentre la cura è lunga e duratura.
Riprendiamo quindi un aspetto sopra accennato e ora maggiormente da chiarire, e cioè che quando si dice che la Fed orienta le aspettative degli operatori, in maniera più corretta dovrebbe dirsi che tende a trovare un paradigma, uno scenario che informi di sicurezze, le massime possibili, gli attori finanziari che partecipano ai mercati; detto in altro modo, nel dispiegarsi dei fatti storici fino alle epoche più antiche, il 75% circa delle volte l’azione dei tassi di interesse. sebbene non diretta e nemmeno accostabile a un dato tipo di evento, ha finito col tempo a poter in qualche modo dare un contributo importante al percorso di riequilibrio dei valori in campo.
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