Negli Stati Uniti l’inflazione a settembre è scesa al 2,4% dal 2,5% del mese precedente mentre l’inflazione “core”, al netto delle componenti più volatili è salita al 3,3% rispetto al 3,2% del mese di agosto; in entrambi i casi il dato è stato superiore alle attese. I servizi continuano a mostrare incrementi sostenuti con i prezzi in rialzo del 4,9% rispetto a un anno fa. L’ultimo dato sui prezzi prima delle elezioni presidenziali conferma un quadro di discesa molto lenta dell’inflazione. L’indicatore preferito della banca centrale americana, “supercore”, invece non registra più cali da giugno e anzi negli ultimi due mesi ha ripreso a salire.
Ieri è stato anche il giorno dei dati settimanali sull’occupazione americana; il numero di richieste di sussidio alla disoccupazione è salito molto oltre le attese probabilmente influenzato anche dall’uragano in Florida. Nelle prossime settimane si avrà più chiarezza sulla forma del rallentamento economico e sull’andamento dell’inflazione. Nel frattempo, gli investitori stanno già dando una forma alle proprie attese.
Il rendimento delle obbligazioni statali americane a due anni ieri è sceso, mentre quelli sulle scadenze più lunghe è salito. Sono saliti oro e petrolio ed è sceso il dollaro. La reazione dei mercati obbligazionari sembra dirci che gli investitori hanno deciso che la Fed, stretta tra un’inflazione che non scende e un mercato del lavoro che può indebolirsi, privilegerà l’occupazione rispetto ai prezzi. Le aspettative degli investitori sull’inflazione, implicite nei rendimenti delle obbligazioni, salgono da agosto e danno ulteriore conferma di questa convinzione: la Fed taglierà i tassi per rispondere a un indebolimento del mercato del lavoro anche se l’inflazione non scende. Questo implica un nuovo paradigma fatto di inflazione strutturalmente più alta. Dopo due decenni in cui le banche centrali davano obiettivi di inflazione costantemente più alti di quelli che poi si verificavano sembra si sia entrati in uno scenario opposto.
L’inflazione diventa il male minore o il lato scoperto di una coperta che non può coprire tutto: stabilità dei prezzi, stabilità dei mercati e crescita economica. Più questo paradigma si prolunga, più diventa necessario usare la leva fiscale per supportare la parte di popolazione che viene lasciata indietro dall’incremento dei prezzi. Questo alimenta il nuovo ciclo di inflazione più alta. La salita dei prezzi si ferma o per un effetto base oppure nelle fasi di rallentamento che però le banche centrali che possono si incaricano di abbreviare. A questo si aggiunge la rottura delle catene di fornitura e i conflitti.
È ormai chiaro che anche Kamala Harris abbia accantonato il “green” perché il sistema e la società americane non possono reggere altre pressioni. La presa sulle catene di fornitura diventa un fattore chiave per controbilanciare una spinta sui prezzi che è strutturale. Questo è quello su cui hanno lavorato e lavorano sia la Cina che gli Stati Uniti.
Da questo paradigma non si scappa. L’inflazione americana arriva in Europa sotto tante forme, dall’incremento dei prezzi delle materie prime fino ai servizi; il turismo, per esempio, è un servizio del tutto assimilabile alle esportazioni nella sua dipendenza dallo stato di salute di economie esterne. Anche l’immigrazione può avere un ruolo nel risolvere un’equazione che ha nella salita dei prezzi l’esito peggiore. Un mese fa ci ha pensato il Wall Street Journal a pubblicare un lungo reportage per spiegare gli effetti sul mercato del lavoro americano di un’ondata di immigrazione senza precedenti nella storia recente. Si scrive ribilanciamento del mercato del lavoro, ma si legge anche ribilanciamento dei prezzi.
Per la politica diventa prioritario contenere gli impatti sociali di questo nuovo paradigma scegliendo tra i vari strumenti disponibili: politiche redistributive, fonti energetiche più economiche, rimpatrio delle produzioni per innescare dinamiche positive di lungo termine sui salari, eventualmente immigrazione per sgonfiare le fiammate dei prezzi più violente, politiche di austerity che comprimano i consumi e così via. Chi sbaglia o calibra male il mix perde non sul fronte dei mercati, ma su quello della stabilità sociale.
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