Fatto l’inquadramento quantitativo per l’intero pianeta, passiamo ora a esaminare il perché il petrolio è il fattore principale e di molto dell’inflazione degli Stati Uniti.

Iniziamo col dire che la domanda lorda di barili giornalieri dell’economia statunitense è pari a 20,5 milioni di barili al giorno (1 barile è pari 155 litri circa); 10,5 milioni in media è la produzione di barili giornaliera degli Usa, che li fa essere parte della triade, insieme ad Arabia Saudita e Russia, di quelle nazioni che hanno raggiunto in media una produzione giornaliera superiore ai 10 milioni di barili. Tanto per ricordare, agli inizi degli anni 2000 gli Usa riuscivano a produrre fino a 5 milioni barili al giorno dai giacimenti dell’Alaska e del Golfo del Messico, poi con la rivoluzione dello shale gas sono riusciti a diventare esportatori netti di gas e a portare la produzione di petrolio da 5 milioni giornalieri di barili a 10 milioni; resta quindi che per soddisfare il resto della domanda manca la metà circa di barili che ovviamente devono essere importati.



La fortuna degli Usa è che per 3,5-4 milioni di barili le importazioni giungono dal Canada, per 1 milione la fornitura è di provenienza messicana, quindi alla fine per 3-4 milioni di barili le importazioni vengono dal resto del mondo, dove è evidente l’importanza dei paesi del Golfo Persico e, come ricordato in precedenza, prima dell’operatività delle sanzioni, 700/800mila barili giornalieri dalla Russia. Abbiamo poi parlato di domanda lorda, perché gli Usa esportano circa 3 milioni di barili raffinati (cioè diesel e benzina) nel mondo.



Ecco allora che i numeri ci danno lo scenario chiaro e completo della situazione: sebbene gli Usa siano esportatori netti di 150/200 miliardi di metri cubi di gas derivante dalla produzione shale oil, data l’impossibilità tecnologica di questo combustibile di sostituire il petrolio in tutte le sue applicazioni, il greggio che all’America manca deve essere importato dall’esterno. Avendo, però, che nel contesto odierno internazionale la produzione Opec+ è guidata da motivazioni non solo strettamente economiche, le quotazioni del petrolio sono di circa il 100% più alte del prezzo ordinario dei 50-55 dollari al barile Wti, e tali quotazioni impattano sul mercato interno americano, perché non è possibile isolarsi dai prezzi dei fattori che vengono importati.



Per tale motivo, se Stati Uniti e Russia non giungono a un nuovo accordo strategico in questo autunno/ inverno, si rischia di assistere, verso febbraio/marzo, a un tasso tendenziale di inflazione del 13% negli Usa. Del resto, l’Opec+ tramite il suo segretario, un principe saudita, ha avvertito debitamente gli Stati Uniti di finirla con la speculazione sui futures Brent e Wti petroliferi condotta sotto la regia del Tesoro americano per abbattere i prezzi, pena il fatto che l’Opec+ ridurrà sensibilmente la produzione in presenza di una domanda volatile e nociva (operazioni sotto regia del Tesoro Usa).

Purtroppo, poi, non va taciuta la decisione del 2 settembre del G7 di applicare dal 5 dicembre prossimo uno schema di price cap sulle esportazioni di greggio russo. Le ragioni profonde vengono fuori però non dalle prolusioni formali del presidente Biden, le quali ribadiscono che in tal modo si porrà fine alla dinamica dei surplus giganteschi di Mosca con la quale poi finanzia la guerra in Ucraina, bensì dalle dichiarazioni del segretario al Tesoro Usa, Yellen, la quale ha candidamente affermato che il tetto di prezzo al petrolio russo è il più potente strumento contro l’attuale inflazione europea e americana, cosicché il ruolo della Fed diventa palese in tutto questo scenario.

Nullo, ed è nullo, perché nulla può la Fed contro un’inflazione da offerta, come anche il premio Nobel Stiglitz sostiene, e tra le altre cose, anche se fosse stata un’inflazione di sola domanda, la presenza di tassi inflattivi in area del 9% implicava una grossa perdita di efficacia e di linearità del solo aumento dei tassi di interesse per diminuire la stessa.

Ma la ciliegina sulla torta, che lascia veramente increduli e attoniti, è che nelle dichiarazioni finali del G7 (del resto, tutti hanno anche avuto opportunità di ascoltare il Commissario Ue, Gentiloni), si ammette in maniera candida che per il funzionamento efficace di questa misura serve il consenso e l’adesione più larga possibile di tutti i paesi esterni al G7.

Lasciando da parte la recita stanca e stantia dell’Unione europea a un copione scritto a uso e consumo degli americani, vi offro la lista dei paesi che devono aderire solo per sperare che parta il tetto di prezzo al petrolio russo: Cina, India, Brasile, Indonesia, Iran, Pakistan, Turchia, Argentina, Messico, Venezuela, Algeria, Egitto, Zaire, Sudafrica, Bangladesh, paesi del Golfo Persico e Nigeria

A mio avviso, a Mosca, dietro le rabbiose e ritorsive dichiarazioni ufficiali, ridono e ridono alla grande, ma non si fanno scrupolo nel mettere in atto ritorsioni crescenti: l’inizio è la mancata ripartenza del North Stream 1, ma immaginate un comunicato in cui Mosca dichiari di tagliare di 2 milioni di barili al giorno la produzione di greggio. E infatti, proprio il 5 settembre, è arrivata la decisione Opec+ di tagliare la produzione giornaliera di 100mila barili al giorno.

È inutile dare i numeri di ciò che sta accadendo, piuttosto è meglio concentrarsi sulla qualità di ciò che sta accadendo: scenari foschi, complessi, guerreggiati in ogni dimensione, volontà di potenza e mancanza di equilibrio.

Detto in altro modo, la decisione del G7 sul price cap al petrolio russo sancisce in maniera formale la fine della globalizzazione. Ed è superfluo dire che il price cap sarà un insuccesso totale.

(2 – fine)

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