Il dato sull’inflazione americana ieri ha mandato il principale listino di New York in profondo rosso con un calo di oltre il 4%. L’incremento annuale dei prezzi ad agosto è stato dell’8,3% contro attese dell’8,1%. Al di là del dato superiore alle attese è la lettura delle sue componenti che fa svanire ogni speranza sulla fine delle politiche restrittive della Federal Reserve. Prendiamo un dato su tutti: il costo dei servizi al netto degli affitti è salito di oltre il 4%. Significa che l’economia americana non ha ancora veramente rallentato e che è ancora spinta dalle politiche iper-espansive messe in atto dopo i lockdown con le imprese cronicamente alla ricerca di personale. L’inflazione percepita dai consumatori è sicuramente più alta del dato ufficiale con l’energia in crescita di oltre il 14%.



Dopo la lettura del dato non solo si è dato per scontato che settimana prossima la Fed alzerà i tassi di altri 75 punti base, ma si è fatta strada l’ipotesi che il rialzo potrebbe, contrariamente a ogni attesa di lunedì sera, arrivare anche a 100. Il secondo dato è che non si vede alcun rallentamento dell’inflazione che anzi rimane ai massimi degli ultimi 40 anni. Il motore che spinge i prezzi è ancora in funzione e il sospetto è che molti settori si siano trattenuti da rivedere i listini. A spingere i prezzi sono, da un lato, la crisi energetica e, dall’altro, la “de-globalizzazione” che accorciando le catene di fornitura e incentivando molti Paesi produttori a limitare le esportazioni è strutturalmente inflazionistica nel medio-lungo termine. L’incertezza sulle prospettiva di crescita, sulla profondità della recessione che arriva e la consapevolezza che non torneremo più al vecchio mondo consigliano le imprese a essere molto prudenti. Questo peggiora la disponibilità di beni e accelera la ristrutturazione delle catene di fornitura.



Per l’Europa questo quadro si presenta all’ennesima potenza. La crisi economica in Europa non è qualcosa che si vede ma che ancora non c’è come in America, ma è già arrivata. La crisi energetica è un multiplo di quella americana e l’Europa è molto più connessa al resto del mondo di quanto non lo siano gli Stati Uniti con i loro quattro fusi orari e un territorio sterminato in grandezza e risorse. Il percorso di rialzo della Federal Reserve mette all’angolo la Banca centrale europea che non può esimersi da alzare i tassi anche se in piena recessione per evitare un deprezzamento eccessivo dell’euro e la fuga dei capitali. In questo scenario le prospettive dell’economia europea diventano veramente fosche.



Non ci sono alchimie finanziarie che possano risolvere i problemi. La crisi si risolve nel mondo fisico e la condizione necessaria è la disponibilità energetica che consenta di non perdere la capacità produttiva. Senza questa premessa ogni azione rischia di essere inefficace. L’inflazione, le politiche monetarie espansive potrebbero essere il minore dei mali se fossero funzionali a ristabilire le forniture energetiche in Europa. Nelle precedenti crisi c’è sempre stato un rimpiazzo alla capacità produttiva persa da questo o quel Paese. Non si sono mai posti né problemi di scarsità, né di prezzi eccessivi. Chiusa questa o quella impresa europea o americana si faceva avanti a prezzi competitivi un’impresa cinese piuttosto che indiana. Nel nuovo mondo questa dinamica non è più scontata. Per questo perdere capacità produttiva significa peggiorare la disponibilità e in ultima analisi anche l’inflazione.

Di tutto questo sembra che ci sia appena la percezione nella leadership europea che non ha ricette come prova il fallimento sul tetto al prezzo del gas; una misura ventilata come risolutiva che invece destava molte perplessità. Più la crisi dei mercati e dell’economia avanza, più diventa evidente che l’Europa non ha una soluzione all’interno delle opzioni che si è data sia in termini geopolitici che di transizione energetica. Dall’altro lato, chiunque voglia o possa uscire dallo schema che l’unione si è imposta può intravedere se non una soluzione almeno una prospettiva. L’Europa è sola e lo dimostra la risolutezza con cui l’America va per la propria strada monetaria a due mesi dalle elezioni di mid-term.

Un’ultima postilla. Ieri Bloomberg pubblicava il rumour secondo cui l’America avrebbe intenzione di ricostituire le riserve di petrolio solo quando il prezzo tornasse a 80 dollari al barile. Questo dopo che l’Amministrazione americana, nel tentativo di placare l’inflazione, ha ridotto le riserve strategiche ai minimi degli ultimi 40 anni. È persino inutile sottolineare che la notizia che a 80 dollari ci sia un compratore marginale non farà “bene” ai prezzi per il sommo dispiacere di tutti quei Paesi e quelle regioni che non hanno petrolio.

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