Mercoledì 13 settembre è stato diffuso il dato tendenziale annuo dell’inflazione Usa riferito al mese di agosto, che è risultato essere del 3,7%, quindi superiore di 0,1 punti percentuali alla stima riportata da Bloomberg che raccoglie le previsioni di operatori del mercato di Wall Street. Nel mio intervento di stima, invece, di due settimane fa all’incirca, avevo indicato un valore puntuale del 3,6% con valore minimo dell’intervallo del 3,3%; stima pertanto congrua e in linea anch’essa.



Va comunque subito evidenziato un aspetto, e cioè che al momento – questi giorni di metà settembre fino al 15 del mese – l’inflazione è già di fatto, a causa dell’azione dei valori in campo, cresciuta al 3,9% circa nel tendenziale di settembre; questa è una notazione di stima parziale perché per il dato definitivo occorre attendere lo sviluppo delle dinamiche di mercato fino alla fine del mese, però dato l’andamento medio dei prezzi del barile Wti del petrolio, in questo momento è addirittura più probabile aspettarsi anche un 4-4,2% di inflazione tendenziale.



Allora, data la premessa, ci si deve chiedere costa stia accadendo, visto che l’inflazione ha ripreso a crescere, per ora nell’area dei valori moderati che arrivano fino al 5% circa dei livelli, ma per il futuro più prossimo non è per nulla da escludere il supero nuovamente di questi livelli, in linea con i valori del 2022.

Per chi scrive, il leitmotiv di fondo è sempre riconducibile alla dinamiche del mercato petrolifero che risente purtroppo dall’inizio di giugno degli annunci di politiche restrittive che avrebbero condotto insieme Arabia Saudita e Russia, con la notazione veramente eccentrica che qualsiasi eventuale taglio, le due nazioni in oggetto, non avevano più l’obbligo di coordinarlo e votarlo nell’ambito dell’assemblea dei soci Opec+, bensì solo di comunicarlo; quindi, da inizio giugno si abita un mondo in cui svegliandosi la mattina, il cittadino medio non è improbabile che debba accettare come fulmini a ciel sereno tagli improvvisi da parte di Russia e Arabia Saudita, che poi, per essere precisi, è quello che sta accadendo oramai da tre mesi a questa parte.



In sostanza, in questo preciso momento della metà del mese di settembre ci dovremmo trovare con un deficit tra domanda mondiale di petrolio e offerta mondiale di circa 3 o 4 milioni di barili al giorno; del tutto evidente che questo squilibrio fondamentale crea pressioni sui prezzi del barile di petrolio, i quali poi si scaricano sull’intera gamma dei beni al consumo finale e dei servizi che vengono conteggiati nel Pil.

Inflazione in ascesa insomma e inflazione da offerta, in tutti i Paesi occidentali compresi gli Stati Uniti, oggetto del presente focus; il fattore di offerta petrolio è responsabile negli Usa di circa il 60% della variazione inflazionistica complessiva, ma se i prezzi del petrolio continuano a incrementarsi tale quota arriverà al 70% abbondante; quindi, il residuo dell’incremento inflazionistico statunitense è dovuto alla domanda aggregata; ma quale parte della domanda aggregata?

Sempre e solo il solito responsabile o i soliti responsabili se si vuole, e cioè i deficit di spesa degli apparati pubblici che si tramutano nella determinazione finale come commesse industriali, tipica e soprattutto di questi tempi quella militare, ma in genere tutti i settori dove si spende in deficit.

In tale contesto tutti guardano alla Fed come market mover, ma in realtà la Fed in queste condizioni ha pochi risultati efficaci con le sue politiche; giova, infatti, sottolineare che la politica di inasprimento dei tassi di interesse può essa stessa causare inflazione invece di abbatterla, in quanto l’aumento dei tassi di interesse viene percepito come aumento dei costi industriali complessivi da parte delle imprese e come aggravio da parte di chi in generale prende fondi a prestito, come in generale i mutuatari per l’acquisto di una casa.

Da queste ipotesi viene fuori la vulgata molto imprecisa che i tassi di interesse con il loro incremento abbattano l’inflazione; insomma, tale regola prima teorica e poi empirica ha bisogno di condizioni necessarie per essere valevole, e la prima condizione è che non ci siano eccessi di domanda a deficit.

In effetti, un imprenditore se subisce l’incremento di prezzo di un fattore di produzione, ci pensa due volte prima di ricorrere a quel fattore per la sua iniziativa produttiva, e questo è il caso canonico neoclassico che un incremento di tassi sfavorirebbe la domanda e quindi per tale verso mitigherebbe l’inflazione. Ma l’attenzione va posta proprio su questo elemento centrale delle ipotesi, e cioè l’assenza di spesa e di domanda aggregata in deficit.

Siccome, però, l’attuale mondo occidentale con in testa a valori assoluti gli Usa, ha deficit di spesa permanenti, la relazione tassi di interesse-tasso di inflazione non solo perde molto di efficacia, ma perde anche di linearità. In sostanza, in un mondo dove non solo si garantisce la domanda, ma se ne assicura in anticipo addirittura il suo aumento ex ante, cioè sull’effettiva produzione di ricchezza reale, i soggetti destinatari di spesa pubblica e quindi per via indiretta tutto il sistema iniziano a percepire l’innalzamento dei tassi come un costo da ammorbidire, e questo nella specie è ciò che fa un imprenditore quando aumentano i costi, cioè innalzare i prezzi.

Si vuol dire che in queste condizioni le armi del Presidente Fed Powell sono molto spuntate e soprattutto in balia della Casa Bianca e del Congresso; al limite quello che riuscirebbe un po’ meglio sarebbe drenare liquidità dal mercato e in aggiunta l’implementazione di provvedimenti amministrativi dell’autorità monetaria che allunghino, ad esempio, di un mese i tempi per avere disponibili i prestiti ricevuti e ricevibili.

Questi provvedimenti insieme a una politica non morbida sui tassi ma nemmeno aggressiva, cioè a dirsi che la Fed a mio parere è inutile che continui nella politica di incrementi del tasso di rifermento, inizierebbero ad avere un effetto più sensibile sull’inflazione. Non dimenticando, però, che per ora i veri problemi sono il prezzo del petrolio che pesa al 60-65% del fenomeno inflattivo e le politiche fiscali in deficit al 35-40%; poi, questi dati ci fanno visualizzare abbastanza immediatamente che senza politiche in deficit, l’inflazione Usa sarebbe stata al 2% circa e quindi nel target, però lo si ribadisce con i bilanci federali in pareggio.

A titolo di esempio, se entro tre mesi a partire da oggi avessimo il barile Wti a 110 dollari, l’inflazione sarebbe in area del 7%, mentre senza deficit di bilancio federali sarebbe al 4,5% circa in invarianza dei tassi di interesse attuali.

È agevole apprezzare i problematici trade-off di questi tempi.

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