Per il dato inflattivo Usa che verrà pubblicato oggi e riferentesi a settembre 2022 in tendenziale sull’anno, si stima un tasso dell’8-8,1%, con valore minimo non sotto al 7,8%. Il Consensus Bloomberg di operatori di mercato stima l’8,1%, quindi nessuna differenza con i valori puntuali della presente stima e soprattutto ancora in decrescita tendenziale, solamente il distinguo però nella presente prolusione che questa identità di valori è soltanto numerica, in quanto come si cercherà di illustrare si crede che dal dato di ottobre in avanti ci sarà un rialzo sensibile del tasso inflattivo verso l’area del 9%, per poi approdare verso aprile 2023 fino alla soglia del 12,5-13%.



Il perché risiede nell’importanza e nell’intensità dei fattori causativi, dove in sostanza si può ben osservare come scenario di fondo che alla globalizzazione come l’abbiamo conosciuta e vissuta fino alla fine del 2019 si è andato sostituendo qualcosa d’altro, ancora incerto e fumoso nel suo concretizzarsi.



Le immagini sono tante e cercheremo di esplicitare le più iconiche: pandemia da Covid-19 che frantuma l’ordito mondiale dei flussi di trasporto e le conseguenti criticità sulle catene produttive di mezzo mondo, la caduta della domanda globale e il suo conseguente stimolo, dove soprattutto negli Usa è avvenuto con le iniezioni di liquidità maggiori a livello internazionale, ove però tale liquidità è stata riservata sostanzialmente alla borsa di Wall Street e sussidi enormi invece sul bilancio pubblico per riattivare il consumo privato; in una parola un’enorme massa di volumi monetari e finanziari sul mercato, prima domestico e poi mondiale.



In seguito, le contese che si trascinavano da anni addietro con la Cina e la Russia si sono intensificate, dove con la Cina è montato l’affaire Taiwan in una dimensione di intense azioni dimostrative da una parte e dall’altra, soprattutto militari, e di continue accuse e contrasti reciproci; per la Russia, invece, il tutto è tracimato in guerra, formale tra Russia e Ucraina, ma implicita, effettiva e multidimensionale con gli Usa e l’Ue.

Il risultato finale, che è la pagina principale attuale di tutti i quotidiani e i mezzi di informazione, è il problema energetico a livello mondiale, ove tale mercato è entrato in un disordine profondo e, a macchia di leopardo, seguono poi i mercati delle derrate dei cereali, dove in qualche modo si è riuscito a mettere una pezza per evitare vere e proprie tragedie alimentari.

Il quadro presentato in sintesi si impone da sé nelle due dinamiche e cioè profondi disequilibri e mancanze al momento di mete chiare, anzi ci sono interi settori di opinione pubblica, di informazione e di poteri più o meno nascosti che buttano benzina sul fuoco, vedi ad esempio le discussioni sull’uso eventuale di armi atomiche; pertanto, date tutte le precedenti precisazioni, la macroeconomia quantitativa e internazionale per le regole che la reggono e ne danno il significato di fondo, si può affermare con una certa tranquillità che al momento è sospesa, non funzionante, in quanto il la alle cose internazionali viene dato da scontri intensi su tantissime dimensioni, scontri che oramai stanno aumentando nel tenore di guerre particolari: dell’energia, delle valute, dei trasporti, degli scambi di categorie di beni, ecc.

Il risultato finale è che attualmente la macroeconomia delle relazioni internazionali perde la sua natura quantitativa robusta e costante per approdare a dimensioni qualitative che la fanno rientrare nello scenario più vasto delle relazioni internazionali tra Stati tout court, conservando al limite una peculiarità di descrizione qualitativa degli eventi; il perché di tale distinguo è dovuto al fatto che ciò che sta accadendo a livello internazionale è oramai una contesa tra Stati e gruppi di essi condotta in svariate dimensioni, dove perciò quella economica perde il vestito formale del prezzo che si forma tra un incontro di una domanda e di un’offerta di beni e servizi; si può affermare al contrario che oggi tutti i prezzi seguono le logiche dello scontro e della visione politica di più ampio respiro rispetto a quella economica; di esempi ce ne sono a bizzeffe, dal dollaro che si apprezza con debito pubblico della nazione pari a 31.500 miliardi di dollari, che finanzia 9.000 miliardi di base monetaria nel passivo della Fed, e poi la posizione netta debitoria sull’estero pari a circa 18.000 miliardi netti fino ai 4.500 miliardi di titoli del debito pubblico detenuti direttamente dai cittadini statunitensi; è evidente che un dollaro che si apprezza così tanto per i soli rialzi al 3,5% dei tassi della Fed con gli stocks prima elencati lascia molti e molti dubbi sulla presenza di reali fattori economici che sorreggono tali apprezzamenti, se non per il fatto che il dollaro è valuta di riserva a livello mondiale per il 59% delle riserve delle Banche centrali e per il 72% circa degli scambi internazionali, e perciò dimensioni politiche danno le spiegazioni di fondo; dove e però va ricordato come sopra che la realtà sta mutando e gli Usa si trovano catapultati in un mondo che vuole toglierli qualsiasi centralità auto referenziale.

Altro esempio di prezzo distorto enormemente, importante e fondamentale è il prezzo dell’oro in dollari che oramai sta sempre più diventando una finzione scenica come nel 1971; in effetti, appena a Mosca verrà completato il mercato dell’oro alternativo a quello dello LBMA di Londra, e se verrà completato, la valutazione in dollari dell’oro se ne andrà verso area 3.000 a oncia e ciò sancirà una prima pietra tombale al dominio finanziario degli Usa sul mondo.

Ma è di questi giorni il prezzo più controverso e quindi più politico di tutti e cioè il petrolio, dove come anche anticipato da parte di chi scrive, ai tentativi di price cap del G7 e dell’Ue e alle manovre speculative sui future Brent e Wti, l’Opec+ avrebbe reagito con modalità terribili; questo si è verificato nella giornata campale del 5 di ottobre, dove di fronte alla decisione Ue del price cap sul petrolio russo è arrivata come una sciagura dal cielo, il taglio di 2 milioni di barili al giorno di petrolio.

Lo scacco è stato accusato dal Presidente Biden, che non ha fatto mistero della sua preoccupazione, fino a entrare così nelle dimensioni delle supposizioni più vaste e incredibili; sto pensando, ad esempio, alla denunzia sul New York Times della responsabilità ucraina nell’attentato della figlia di Dugin, sottolineato dal fatto che tali informazioni sono arrivate da gole profonde della CIA e dintorni, e poi in sequenza sempre da Biden la mezza ammissione di un vertice con Putin a margine del G20 di Bali in Indonesia.

È evidente la dimensione strategica e oscura di tali avvenimenti che poco hanno a che vedere col regolare flusso economico delle faccende, quando nel mondo c’è ordine; al contrario, in questo momento il disordine mondiale è talmente ampio da appartenere alla dimensione guerreggiata delle cose.

Altri fatti imperiosi e iconici restano sullo sfondo, come ad esempio i sabotaggi dei gasdotti Nord Stream e poi altri ancora, tutti importanti e vasti, tanto importanti e tanto vasti da portare a chiedersi quale sia oggi il ruolo della Fed nel combattere l’inflazione negli Usa.

La mia risposta da mesi è sempre la stessa: importante ma secondaria, in quanto i fattori causativi del fenomeno inflattivo non sono nel controllo dell’istituto centrale; ed è da tale punto di vista che il ruolo della Fed diventa importante nell’aiutare l’attore principale per combattere l’inflazione odierna, parliamo cioè della Casa Bianca e poi del Congresso.

A mio parere siamo alla fine dei giochi, in quanto il Presidente Biden può concepire i piani di azioni politiche e di investimento e di relazioni internazionali che vuole, ma lo può fare se e solo se azzera tutti i tipi di disavanzi pubblici, da quello del deficit fino ad arrivare al disavanzo commerciale. E qui la questione diventa sporca e complicata perché per azzerare e invertire i flussi delle partite correnti con l’Ue a mio parere gli Usa stanno giocando una partita sordida pericolosa scoordinata, qui va letto l’affaire Nord Stream.

Ma abbandonando per un attimo le questioni internazionali, e tornando a focalizzarci sulla Fed e sulla sua azione di contenimento all’inflazione, io credo che debba continuare comunque con l’inasprimento dei tassi, ma debba fare marcia indietro sulla riduzione del suo passivo e quindi sulla riduzione di base monetaria; l’azione di inasprimento sui tassi ha degli effetti ma non totali e non univoci sul tasso inflattivo, mentre è molto importante come faro sulle aspettative: il futuro è divenuto incerto e pericoloso.

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