Il contagio da coronavirus contratto sul posto di lavoro può essere considerato un infortunio a cui applicare la relativa disciplina? L’interrogativo lo ha sciolto il decreto Cura Italia. L’articolo 42, comma 2, del citato decreto-legge dispone infatti che nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’Inail che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni Inail nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro.



I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti del Decreto Interministeriale 27 febbraio 2019 (ovvero a carico del singolo datore). La disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati.



A questo proposito anche l’Inail è intervento con un’apposita circolare (n.13/2020) e con un documento tecnico riguardante le strategie e le misure ai prevenzione. La porta d’accesso al riconoscimento dell’infortunio sul posto di lavoro attribuito al contagio si basa sul c.d. concetto di malattia infortunio, una fattispecie già riconosciuta e applicata in caso di contagio di malattie infettive, per le quali il requisito essenziale della “causa violenta” è assimilato a quello della “causa virulenta”.

È noto che il caso di infortunio può comportare una responsabilità penale e civile del datore di lavoro, il quale è titolare della posizione di garanzia, ovvero dell’obbligo giuridico di evitare l’evento lesivo del contagio. Pertanto, al fine di poter contestare al medesimo la responsabilità penale legata alla relativa malattia (o, addirittura, al decesso) occorrerà dimostrare che in capo al datore o al rappresentante dell’impresa vi sia un profilo di colpa e di colpa specifica per violazione di legge o normativa secondaria, dunque la violazione di una o più “norme cautelari”. È comunque plausibile che dalla norma – peraltro corretta – derivi un contenzioso sia in sede penale che in quella civile.



Alcune precisazioni sono state fornite in un articolo di Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro, ora componente del cda dell’Inail, con il quale viene illustrata la circolare n. 13. “Tale estensione, che vede l’Inail in primo piano, riguarda in primis i contagi contratti da medici, infermieri, operatori di strutture sanitarie, dipendenti sia del Servizio sanitario nazionale che di strutture private e altre categorie che lavorano in contatto con l’utenza, come chi opera, ad esempio in front-office, alla cassa o a un banco, gli addetti alle vendite, il personale non sanitario con mansioni tecniche, di supporto o pulizia negli ospedali, e gli operatori delle ambulanze. Per queste categorie, infatti, l’Inail ha chiarito che il riconoscimento dell’infortunio da Covid-19 sia assicurato da una presunzione semplice di origine professionale del contagio. Peraltro, le prestazioni Inail in materia – ha proseguito Damiano – possono essere altresì fruite dalle altre categorie di lavoratori, cui però spetterà l’onere di provare l’origine lavorativa del contagio. Inoltre, dette prestazioni possono essere applicate anche durante il periodo di quarantena o di autoisolamento a casa; fatti che comportano l’astensione dal lavoro”. Ovviamente viene estesa la tutela anche al caso di malattia infortunio in itinere.

Il documento dell’Inail fornisce alcuni dati interessanti per quanto riguarda i lavoratori coinvolti dalla riapertura della scorsa settimana, evidenziando che il loro numero è inferiore a quanti non hanno mai smesso di lavorare anche durante le settimane di quarantena. Secondo stime riportate nella memoria scritta presentata dall’Istat al Senato della Repubblica il 25 marzo scorso – ricorda l’Inail -, l’insieme dei settori non sospesi comprende 2,3 milioni di imprese (il 51,2% del totale). Questo insieme rappresenta un’occupazione di 15,6 milioni di lavoratori (66,7% del totale), mentre i sospesi ammontano a circa 7,8 milioni (33,3%). Tuttavia, in considerazione del dato reale al netto di tutte le forme di lavoro a distanza e dell’incentivazione dei periodi di congedo e ferie, è stimabile, pure in assenza di un dato puntuale, che circa il 25% dei lavoratori hanno continuato a lavorare in presenza (per esempio, strutture socio-sanitarie, forze dell’ordine, forze armate e i servizi essenziali della Pubblica amministrazione, la filiera alimentare, le farmacie, i trasporti, ecc.). I provvedimenti adottati con il decreto del 10 aprile hanno ulteriormente ampliato la platea dei settori attivi e nella versione attuale i dati sono stati aggiornati conseguentemente.

Le misure contenitive che hanno riguardato il mondo del lavoro si sono rese necessarie per ridurre le occasioni di contatto sociale sia per la popolazione generale, ma anche per caratteristiche intrinseche dell’attività lavorativa per il rischio di contagio. Il fenomeno dell’epidemia tra gli operatori sanitari – che sicuramente per questo ambito di rischio è il contesto lavorativo di maggior pericolosità – ha fatto emergere con chiarezza come il rischio da infezione in occasione di lavoro sia concreto e ha determinato, come confermato anche dalle ultime rilevazioni, numeri elevati di infezioni pari a circa il 10% del totale dei casi e numerosi decessi.

A titolo esemplificativo, il documento Inail pubblica una tabella che illustra le classi di rischio per alcuni dei principali settori lavorativi e partizioni degli stessi, nonché il relativo numero degli occupati.

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