L’epidemia da Covid-19 solleva molte questioni di natura giuridica. La più pressante è costituita dalla individuazione degli obblighi e responsabilità del datore di lavoro dinanzi a un rischio che non dipende dalle imprese, le quali rilevano soltanto come possibili luoghi di aggregazione, al pari delle scuole, dei mezzi pubblici, dei ristoranti, ecc. Ebbene, non sussistono dubbi sul fatto che le imprese siano tenute ad adottare le misure individuate dal protocollo generale del 24 aprile 2020 e dai protocolli aziendali, ma la domanda più importante è fino a che punto possano ritenersi responsabili per i danni subiti dai lavoratori a causa del contagio.



Il dibattito più recente rivela la preoccupante tendenza a sovrapporre istituti giuridici diversi, aumentando il già elevato grado di incertezza che l’epidemia ha imposto all’economia del Paese. Uno dei fattori di maggiore confusione è dato dalla sovrapposizione tra le funzioni che dovrebbero essere delle tutele previdenziali e quelle attribuite alla responsabilità civile e penale.



Sul piano previdenziale, l’art. 42 del Dl n. 18 del 2020, ha previsto che nei “casi accertati di infezione da coronavirus (Sars-CoV-2) in occasione di lavoro” il lavoratore ha diritto alle prestazioni dell’Inail “anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro“, precisando che tali eventi non saranno computati ai fini del calcolo del premio dovuto all’Inail. Su questa norma è poi intervenuta la circolare n. 13/2020 dell’Inail che ha stabilito quando è possibile presumere che il contagio sia semplicemente avvenuto in “occasione di lavoro”, ma ciò evidentemente sul piano previdenziale ai soli fini cioè del pagamento delle indennità dell’Inail. In tale ambito, infatti, le infezioni sono qualificate come infortunio e non come malattia in ragione dell’equiparazione della causa virulenta alla causa violenta degli infortuni. In questo senso numerose sentenze avevano già qualificato come infortunio le infezioni da epatite, malaria, ecc..



La circolare, dunque, non presume affatto la responsabilità dell’impresa né potrebbe farlo, dal momento che la responsabilità dell’impresa è accertata dal giudice e non certo dalle circolari dall’Inail. La funzione dell'”occasione di lavoro”, del resto, è proprio quella di garantire al lavoratore una tutela sociale più ampia e svincolata dalla responsabilità dell’impresa. Se così non fosse, i lavoratori rimarrebbero privi della tutela in tutti quei casi – la maggior parte – in cui l’infortunio non è imputabile alla responsabilità dell’impresa come nel caso dell’infortunio in itinere.

Se l'”occasione di lavoro” non significa affatto “responsabilità” dell’impresa, da dove nascono allora i timori di una presunta responsabilità delle imprese? Questi timori nascono dalla preoccupazione che le imprese, già gravate dalla crisi, possano subire un processo civile o penale solo per il fatto che un lavoratore sia stato contagiato. Ma ciò evidentemente non dipende dalla circolare dell’Inail, ma dalla necessità, appunto, che sia un giudice ad accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro, distinguendo le imprese virtuose da quelle che non hanno adottato alcuna misura di sicurezza.

Resta ovviamente il problema della discrezionalità valutativa del giudice e del costo del giudizio che le imprese sono chiamate a sopportare, tenuto conto anche del fatto che nella maggior parte dei casi i processi si risolveranno nel nulla per la difficoltà di accertare che il contagio sia avvenuto effettivamente sul luogo di lavoro e a causa della mancata adozione delle misure di sicurezza.

Non si può tuttavia sottovalutare un altro aspetto che rischia di aumentare quantomeno le cause civili di risarcimento. Ed è su questo aspetto che la circolare dell’Inail torna in gioco. Essa infatti ha presunto l’origine professionale del contagio ai fini dell’assicurazione sociale soltanto per alcuni lavoratori maggiormente esposti al rischio (operatori sanitari, addetti al front-office, alla cassa, alle vendite/banconisti, il personale non sanitario degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, pulizia, di trasporto infermi, ecc.). Con la conseguenza che, negli altri casi, spetta al lavoratore dimostrare che il contagio è avvenuto in “occasione di lavoro” e non è difficile immaginare che nella maggior parte dei casi sarà difficile, se non impossibile, riuscire a ottenere le prestazioni dell’Inail.

Il rischio allora è che molti lavoratori saranno indotti ad agire nei confronti dell’impresa per tentare di ottenere una qualche forma di riparazione, facendo affidamento sul costo del giudizio che l’impresa sarebbe comunque chiamata a sopportare.

Il problema dunque non è la presunzione dell’Inail, quanto piuttosto il fatto che i limiti applicativi di quella presunzione rischiano di trasferire sulle imprese una funzione che è in realtà di natura previdenziale. Tenuto conto della contribuzione che già grava sulle imprese e dell’ampia probabilità del contagio in itinere, non sarebbe allora più coerente presumere l'”occasione di lavoro” per tutti i lavoratori che nelle due settimane precedenti al tampone positivo abbiano prestato l’attività sul luogo di lavoro? Considerato che il contagio costituisce un rischio esterno all’impresa e che grava piuttosto sulla società nel suo complesso, non sarebbe più corretto socializzare questo rischio per quelle imprese che, adottando i protocolli di sicurezza, hanno contribuito a limitarlo?

I lavoratori sarebbero così garantiti delle prestazioni sociali, riducendo l’interesse ad agire nei confronti dei datori di lavoro, mentre questi ultimi non subirebbero alcun aumento dei premi e sarebbero chiamati a rispondere del risarcimento solo in caso di violazione dei protocolli che in questo senso dovrebbero essere qualificati come criteri specificativi del generale obbligo di sicurezza dell’art. 2087 cod. civ. Tenuto conto di quanti sono stati collocati in cassa integrazione o hanno lavorato in modalità di lavoro agile, non sono molti i contagiati che hanno svolto l’attività in azienda nelle due settimane precedenti all’esame positivo e ancora meno, fortunatamente, sono coloro che hanno subito danni permanenti o sono deceduti a causa del contagio. In questo modo si potrebbe garantire ai lavoratori una pronta e automatica tutela, evitando di imporre indebitamente alle imprese una funzione previdenziale.

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