NEW YORK — Fame e sete di giustizia. Chi non ne ha? Cosa avranno provato Alfred Chestnut, Andrew Stewart e Ransom Watkins quando, ancora teenagers, vennero arrestati e condannati per un omicidio che non avevano commesso? Quanta fame e sete di giustizia avranno avuto in questi 36 anni di prigione sapendo, ma non potendo provare, di essere innocenti?
L’altro giorno, con la grande festa nazionale di Thanksgiving alle porte, la città di Baltimore ha restituito loro la libertà. Non per bontà d’animo, ma in ragione di prove che già nel 1983 sarebbero state sufficienti a scagionare quelli che allora altro non erano che tre ragazzini di colore, un po’ discoli, certo, ma non altro. Tanto che all’atto della scarcerazione Marilyn Mosby, City State Attorney di Baltimore, si è sentita in dovere di dire che “Non c’è modo di riparare al danno fatto a questi uomini con 36 anni di vita rubati”.
Ma trentasei anni fa, in una città come Baltimore da sempre segnata dalla criminalità e ad appena 15 anni dalle violente rivolte seguite all’assassinio di Martin Luther King, la “giustizia” aveva fretta, e sembrava potersi permettere di procedere sbrigativamente soprattutto quando si trattava di questioni tra ragazzi di colore. Come in questo caso, con un quattordicenne ucciso nel corridoio della scuola di un ghetto semplicemente per portargli via il giaccone della Georgetown University che indossava.
“That was hell, that was miserable”: è stato un inferno, ha raccontato Chestnut riflettendo sull’interminabile tempo trascorso in carcere. “Non ho fatto altro che ripetere la stessa cosa per tutti questi anni. Quello che ho fatto per me ho fatto per i miei due amici”. Ripetere sempre la stessa verità, rinunciando persino alla possibilità della libertà condizionale pur di non rinnegare la propria innocenza.
Come si può sopravvivere a una ingiustizia del genere? Come è possibile che questa fame e questa sete non diventino rabbia, odio e violenza? E per noi, spettatori di questa tragedia umana, come è possibile non ridurre il tutto a un semplice dibattito sull’amministrazione della giustizia e sulla disumanità della pena di morte? “Finalmente qualcuno ha ascoltato il mio grido”, ha detto Chestnut, l’uomo che non si è mai stancato di difendere la verità. “E per questo rendo grazie a Dio ed a Marilyn Mosby”.
Andrew Stewart, 53 anni, diciassettenne al tempo dell’arresto, nel momento di più profonda disperazione ha trovato la fede. “Mi son detto, se è qui che Dio vuole che posi il capo per il resto della mia vita, è qui che servirò Gesù Cristo per il resto della mia vita”.
Fino alla tenerezza dell’ormai anziana madre di Chestnut, “Non pensavo che ci saremmo mai arrivati… Non ballo da tanto tempo. Potrei farlo oggi”.
Perché la gratitudine è più forte della rabbia, è più bella e abbraccia tutto.
Happy Thanksgiving!