In Europa si sente spesso parlare della necessità di “imitare la Silicon Valley”, creando un ecosistema scientifico/tecnologico atto a stimolare la nascita di nuove aziende innovative. Se la Commissione europea anela a “regolamentare” i colossi high-tech americani, i singoli Paesi cercano di far convergere il venture capital su distretti innovativi: Berlino e la Neckar (Cyber) Valley in Germania, ad esempio, o la Hydrogen Valley in Olanda.



Anche l’Italia manovra in questa direzione. Luigi Di Maio fantasticava già nel 2018 di “startup ecologiche” come volano di sviluppo per il Paese. Nel 2019, la visione del ministro si è concretizzata nella creazione del Fondo Nazionale Innovazione. Recentemente, con un emendamento al Decreto Infrastrutture, il Governo Draghi ha triplicato la dotazione economica del Fondo. Ma è davvero questo ciò di cui l’Italia ha bisogno per uscire dalla stagnazione in cui vegeta da ormai diversi decenni? Per provare a capirlo, volgiamo lo sguardo a due nazioni prototipiche (per motivi che verranno presto chiariti): Israele e Svizzera.



Nonostante le piccole dimensioni (8 milioni di abitanti su una superficie di 20.000 km quadrati), Israele occupa un posto di rilievo nel consesso delle nazioni: per la sua diversità religiosa, per le doti del suo esercito e dei suoi servizi segreti, per il rapporto speciale che intrattiene con gli Usa. Israele possiede anche un sistema universitario di altissimo livello (Technion, Weizmann Institute of Science), in grado produrre un flusso continuo di startup che finiscono poi spesso per essere acquisite da aziende straniere (Mobileye da Intel, ad esempio). Israele è un paese ad alto reddito, con un Pil pro capite di 40.000 dollari/anno.



La Svizzera è una nazione simile a Israele per dimensioni e popolazione (il paesaggio è molto diverso, ma il cambiamento climatico potrebbe contribuire a renderlo più simile nei prossimi decenni). Anche la Svizzera è sede di importanti università di livello mondiale (EPFL, ETH), che attraggono talenti da tutto il mondo: nella competizione per i prestigiosi grant ERC (European Research Council), la Svizzera è uno dei player di maggior successo (primato peraltro condiviso con Israele). E naturalmente anche la Svizzera è un paese ricco, con un Pil pro capite di 80.000 dollari/anno (il doppio di Israele).

Esiste però un’importante differenza fra i due Paesi. Mentre la Svizzera può vantare grandi aziende di livello mondiale (Glencore, Nestlè, Roche), la stessa cosa non si può dire di Israele: le più grandi aziende israeliane (Teva Pharmaceutical Industries, Amdocs, Check Point) volano a un livello nettamente inferiore rispetto ai champions elvetici. Estremizzando il ragionamento, potremmo dire che Israele eccelle nelle startup, mentre la Svizzera primeggia nelle grandi aziende. Quest’ultima affermazione può essere riformulata dicendo che Israele è leader nell’innovazione (necessaria per creare startup), mentre la Svizzera è campione mondiale nell’organizzazione (necessaria per gestire grandi aziende): sono questi due degli ingredienti fondamentali di un’economia di successo. A quale modello dovrebbe ispirarsi il nostro Paese?

La spina dorsale dell’economia italiana è composta da piccole e micro imprese, in misura maggiore rispetto ad altre economie avanzate. Le PMI generano nel nostro Paese il 66,9% del valore aggiunto e impiegano il 78,1% della forza lavoro (fonte: Commissione Ue). Le grandi aziende sono invece sottorappresentate: la classifica Fortune 500 elencava nel 2019 solo 9 aziende italiane, meno del 2% del totale (la Svizzera, con una popolazione pari al 15% di quella italiana, ne aveva 14).

Credo di parlare con saggezza affermando che l’Italia è leader mondiale nel settore della pizza, il prodotto simbolo della cucina italiana diffuso in tutti i continenti, uno degli alimenti di maggior successo nella storia umana, con una penetrazione di mercato altissima, indipendente dal contesto culturale o religioso. Ebbene, qualsiasi città a sud delle Alpi ha notoriamente un’altissima densità di pizzerie per km quadrato, ma le più famose catene di pizzerie e/o aziende produttrici di pizza sono tutte non italiane: pizza Hut, Domino pizza, Dr. Oetker, ecc. (dichiaro en passant, sperando di non scandalizzare nessuno, il mio amore per Pizza Hut).

Lo stesso discorso vale per i prodotti da bar: l’Italia è piena di bar, ma anche in questo caso il principale interprete globale di specialità (Starbucks) non è italiano. Howard Schultz, artefice del successo planetario di Starbucks, trasse effettivamente ispirazione dai bar italiani (conosciuti durante un viaggio nel nostro Paese) per plasmare l’immagine dell’azienda. Anche molti dei prodotti in offerta hanno nomi italiani: cappuccino, caramel latte, ecc.: la sede dell’azienda non si trova però dalle nostre parti, bensì a Seattle, nello stato di Washington (sempre en passant, segnalo che sono anche un fan di Starbucks e mi compiaccio del recente sbarco dell’azienda nel Bel Paese).

Possiamo quindi concludere che l’Italia è molto più simile a Israele che alla Svizzera: un Paese dominato da piccole aziende, che per qualche motivo non riescono a crescere. Il problema dell’Italia non è passare da una dimensione aziendale pari a 0 dipendenti (nessuna azienda) a una dimensione aziendale pari a 5 dipendenti (startup). Quello che le aziende italiane non riescono a fare è passare da 5 dipendenti a 50, 500 o 5000. Più che (oppure oltre che) promuovere la formazione di nuove startup, sarebbe utile concentrare l’attenzione sulle decine di migliaia di startup già esistenti. Dovremmo poter disporre di un “reattore” in grado di fondere 10.000 bar e pizzerie, creando uno Starbucks e una Pizza Hut nostrani.

Sono naturalmente consapevole del fatto che non tutte le piccole aziende italiane si occupano di quantum computing o elicotteri a guida autonoma. Il reattore di cui sopra non ci permetterà di creare grandi aziende leader nelle nuove tecnologie. Non è chiaro, d’altra parte, se e quando queste nuove tecnologie riusciranno a prendere piede. Un noto adagio recita: “La fusione nucleare è la tecnologia del futuro, lo è sempre stata e lo sarà sempre”. Come disse Nils Bohr, è difficile fare previsioni, specialmente riguardo al futuro. La pizza e il cappuccino, invece, un futuro garantito ce l’hanno di sicuro.

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