L’Inps non dà la pensione giusta ai militari congedati per malattie gravi come tumori e infarti oppure poiché vittime di incidenti mentre prestavano servizio: i tre mesi di assegni che spettano loro, secondo quanto ricostruito da La Verità, non vengono versati addirittura dal 2012, forse anche di più. Una lacuna che potrebbe costare cara ai conti dell’ente previdenziale guidato da Pasquale Tridico. L’ennesima denuncia sul caso è arrivata dall’Associazione sindacale professionisti militari (Aspmi), che da anni si batte per la tutela del personale militare e, soprattutto, di coloro che hanno dovuto abbandonare il servizio dopo essere stati riformati.



“Gli assegni maturano il diritto di calcolo per la tredicesima mensilità. Il combinato disposto permette al personale cessato dal servizio per inabilità di percepire la tredicesima mensilità per intero. Purtroppo, tale evidente diritto non viene applicato ai militari che vengono collocati in quiescenza”, ha raccontato il sindacato. Per di più, “il collocamento in pensione, a causa di inabilità, è determinato molte volte da patologie importanti, quali ad esempio infarti, ictus, tumori, che non permettono di avere una tale lucidità mentale utile ad accorgersi immediatamente del maltolto”.



Inps non dà pensione a militari congedati per malattie o incidenti: la denuncia di ASPMI

L’Inps non sembrerebbe intenzionato a rimediare alle lacune sulla pensione ai militari congedati per malattie o incidenti. L’ente previdenziale, infatti, adesso sostiene che versare gli assegni per tre mesi dovrebbe essere una competenza dell’amministrazione Difesa. Quest’ultima, contattata dall’Aspmi, ha a sua volta rispedito le accuse al mittente. Il risultato è che nessuno si sta muovendo per risolvere il problema che riguarda un elevato numero di persone, circa 500 ogni anno ad esclusione di coloro che fanno parte dell’aeronautica o della marina. Per rimediare alla mancanza, potrebbero servire milioni di euro.



“Ad aggravare la questione, c’è che i ratei della tredicesima devo essere corrisposti entro l’anno in cui sono stati maturati, questo perché devono far parte dei redditi dell’anno e quindi sottostare all’applicazione della tassazione annua corrente, la quale, fino al 2021, era del 38% e successivamente diminuita al 35%. Inoltre, il mancato pagamento entro i termini di legge del compenso configura anche un danno economico certo per lo Stato, che è pari alla differenza tra tassazione corrente e tassazione separata ovvero tra aliquota massima e aliquota media”, ha evidenziato il sindacato.