Un nebbiosissimo pomeriggio milanese, mi avvio con un po’ di scetticismo all’incontro organizzato da Diesse su un tema complesso e decisivo per il futuro della scuola italiana: la formazione iniziale dei docenti, cioè come si potrà d’ora in poi accedere alla carriera. Il mio scetticismo nasce dal fatto che è difficile coinvolgere gli insegnanti, per di più giovani – hanno tante cose da fare – in una giornata che invoglia solo a restare tappati in casa. Ma devo ricredermi, entro nell’aula magna di un istituto tecnico alla periferia di Milano e mi trovo schierati almeno duecento giovanissimi insegnanti, alcuni – lo scoprirò dalle domande – ancora alle prese con gli ultimi mesi di università ma con la prospettiva di dedicarsi alla scuola. L’efficienza di Mariella Ferrante (la presidente di Diesse Lombardia) e di Fabrizio Foschi (il presidente nazionale) ha fatto il miracolo, la sala piena fa ben sperare: c’è ancora gente che pensa di cominciare un mestiere difficile e affascinante. È una bella notizia che val la pena di comunicare, in questi tempi.
Anche i due relatori hanno rappresentato un richiamo che non si poteva trascurare: Max Bruschi, consigliere del ministro Gelmini, e Franco Nembrini, docente ormai quasi di lungo corso, hanno intrattenuto per due ore gli attentissimi ascoltatori. Bruschi ha illustrato i tratti fondamentali dello schema di regolamento sulla formazione iniziale, che ha appena superato il giudizio della Corte dei Conti e, fatto piuttosto inconsueto, senza sostanziali critiche. Chi è nella scuola sa che da molto tempo si aspettava che qualcosa si muovesse, dopo l’esperienza, ormai datata, delle SSIS; il regolamento prevede che dopo corsi di laurea magistrale si frequenti un anno di tirocinio cogestito tra università e scuola.
Una piccola ma significativa conquista, dovuta anche alle pressioni arrivate al Ministero dalle associazioni di insegnanti: finalmente si sperimenta in classe, ci si prepara ad una professione non solo sui libri ma con una esperienza sul campo. Credo che si tratti di un fatto innovativo e positivo: vedere al lavoro colleghi più esperti e avanti negli anni costituisce un banco di prova per verificare una propensione (mi verrebbe da dire vocazione, ma sa di clericale anche se l’etimologia della parola dice più della sua riduzione ideologica) e delle capacità che si presume di avere. Ne guadagneranno soprattutto gli studenti che in questi ultimi anni sono stati spesso privati di maestri, di adulti che li abbiano provocati sulle loro domande di conoscenza e di significato.
Proprio su questo tema si è intrattenuto Nembrini nella sua intensa testimonianza: per insegnare, per essere maestri, abbiamo bisogno di maestri da seguire. Io stesso – ha raccontato – mi sono lasciato convincere all’insegnamento perché ho trovato figure di adulti insegnanti che mi hanno affascinato e insieme mostrato come insegnare. L’insegnamento è un’arte – ha continuato Nembrini – che si apprende da un artista: c’è tutto in questo apprendere, la materialità (le discipline), il metodo, lo sguardo sui giovani che ti stanno davanti.
Un diluvio di domande ha sommerso Bruschi che ha risposto con la nota sagacia. Una riflessione conclusiva: l’insegnamento non è un lavoro per individui, è un mestiere che si svolge insieme, perché il dialogo e il confronto tra colleghi e amici costituisce un pilastro essenziale della professione. Un lavoro comune che Diesse da qualche anno ha denominato la bottega con allusione significativa ai luoghi di produzione degli artigiani. Le botteghe sono un’occasione anche per chi si sta affacciando alla professione, come documentato nel prossimo quaderno di Libertà di educazione in uscita a febbraio. Cercatelo nelle sedi di Diesse.