Quello dell’insicurezza alimentare non è un problema nuovo. Anzi, potremmo dire che è il problema più antico che c’è. E tuttavia oggi, prima a causa della pandemia, poi della guerra e adesso dell’inflazione, il numero di persone che vivono sotto la soglia della povertà è cresciuto parecchio.
Nel 2021, secondo il rapporto 2022 della Fao, nel mondo si sono registrate 828 milioni di persone che soffrono la fame e altri 2,3 miliardi in stato di moderata o grave insicurezza alimentare. In Italia, nel triennio 2019-2021 il 6,3% della popolazione ha avuto problemi di accesso al cibo. Uno scenario in progressivo peggioramento: sempre secondo le previsioni Fao, la guerra in Ucraina potrebbe far crescere di altri 13 milioni il numero di persone in stato di insicurezza alimentare nel 2022, e di altri 17 milioni nel 2023. Previsioni allarmanti, che si sommano al dato, già critico, sull’insicurezza nutrizionale: solo nel 2020 il numero di persone che non potevano permettersi una dieta sana ammontava a 3,1 miliardi.
Un problema, dunque, vecchio come il mondo, ma che oggi può essere affrontato con strumenti nuovi. E, soprattutto, con un approccio che coinvolga più e diversi attori, del pubblico e del privato, per aggregare risorse e competenze e creare reti che sappiano davvero fornire risposte a un bisogno crescente. Come ben evidenzia l’ultima edizione dell’Osservatorio Food Sustainability del Politecnico di Milano. Presentato a fine settembre nel corso di un convegno intitolato: “Sicurezza alimentare e sostenibilità della filiera agrifood: a che punto siamo?”.
“I dati Istat mostrano che, a causa della pandemia, nel 2020 il numero di persone che in Italia sono scese sotto la soglia della povertà è passato da 4,5 a 5,6 milioni. E nulla è cambiato, nel 2021, nonostante il cosiddetto Pil boom”, spiega Giovanni Bruno, presidente Fondazione Banco Alimentare Onlus, nel corso del suo intervento. “Ora la situazione è ancora più precaria, con l’inflazione che colpisce duro il mondo dell’alimentare”. Con 7.600 enti e strutture caritative convenzionate, nel 2019 il Banco Alimentare sosteneva 1,5 milioni di persone, 1,6 milioni l’anno successivo fino ad arrivare, oggi, ad aiutarne quasi 1,7 milioni.
“Dimentichiamoci lo stereotipo del povero che dorme sulla panchina”, aggiunge Giovanni Bruno. “Già prima della pandemia c’era una fetta significativa di persone che chiedevano aiuto e che, apparentemente, conducevano una vita normale. Oggi questo è ancora più evidente. E tante persone che hanno un lavoro cercano un sostegno per acquistare cibo. Nessuno può permettersi di farsi tagliare la luce e il gas o può rinunciare alle cure mediche. Quindi risparmia sul cibo”. Parallelamente alla crescita del bisogno, tuttavia, diminuisce la disponibilità. “In una situazione complessa come quella attuale, le aziende giustamente cercano di ottimizzare le spese per cui le eccedenze diminuiscono”, prosegue il presidente. “Nel 2021 abbiamo recuperato 45mila tonnellate, ma nei primi sei mesi di quest’anno abbiamo già registrato una riduzione dell’8% circa e temiamo possa peggiorare”.
Proprio a causa dell’aggravarsi delle condizioni di povertà, le città fanno sempre più fatica a garantire accesso al cibo a tutte le fasce della popolazione. E proprio nei contesti urbani, evidenzia il rapporto, il potenziale delle collaborazioni cross-settoriali tra attori pubblici e privati per il recupero e la distribuzione di alimenti a fini sociali risulta cruciale. “Da un lato si aggrava la situazione dell’insicurezza alimentare, dall’altro cresce lo spreco di cibo. Un vero paradosso”, commenta Giulia Bartezzaghi, direttrice dell’Osservatorio Food Sustainability del Politecnico di Milano. “Le municipalità hanno quindi creato ‘reti’ tra città e dentro alle città, intensificando le collaborazioni cross-settoriali”. L’Osservatorio ha mappato 39 iniziative a livello internazionale, di cui 29 in Italia. Ne ha analizzato i modelli collaborativi e ha individuato quattro cluster ricorrenti.
Il primo è il “Recupero e la ridistribuzione di eccedenze alimentari tramite donazione”. Si tratta di prodotti in eccedenza donati dalle imprese alimentari a organizzazioni non profit che li ridistribuiscono, direttamente o tramite altri enti, agli indigenti. Il secondo modello è quello della “Spesa sospesa’: l’elemento chiave è l’acquisto dei prodotti (non eccedenze) da parte dei cittadini privati all’interno della propria spesa, al fine di donarli all’ente non profit che li ridistribuisce ai beneficiari finali. La “trasformazione dell’eccedenza” (ad esempio alimenti in prossimità di scadenza o non conformi agli standard di mercato a causa di difetti estetici) in un altro prodotto o in un pasto cucinato è il terzo modello analizzato. “I prodotti sono acquistati a prezzo calmierato da produttori agricoli o recuperati tramite donazione da aziende alimentari e Gdo”, spiega l’Osservatorio. Il “Supermercato sociale”, quarta e ultima modalità individuata, vede il recupero dei prodotti tramite donazioni di derrate da parte di aziende o, in alcuni casi, di organizzazioni non profit intermediarie, o anche acquistati a prezzo calmierato per integrare il paniere di beni ricevuti in donazione con altri prodotti di difficile reperibilità. “La caratteristica comune”, si legge, “è l’utilizzo di uno spazio fisico allestito a negozio dove i cittadini in stato di bisogno hanno la possibilità di approvvigionarsi di prodotti alimentari e di altri beni di prima necessità attraverso un sistema di tessera a punti”.
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