Il rapido diffondersi di piattaforme digitali dotate di “intelligenza artificiale” ha acceso un vivo dibattito circa la potenzialità di tali strumenti. Come spesso accade di fronte all’irruzione di fenomeni cosiddetti disruptive, c’è chi li accoglie con grande positività e chi invece con una certa diffidenza. Nel caso specifico, la discussione è resa ancor più vibrante dal fatto che gli stessi creatori di tali piattaforme non hanno una posizione univoca sul tema. Alcuni hanno mostrato preoccupazione per le possibili conseguenze incontrollabili che l’intelligenza artificiale può causare.



Essendo un brain artificiale che si auto-alimenta con le informazioni che le vengono fornite, il suo sviluppo rischia di essere incontrollabile. Quali sono le potenzialità dell’intelligenza artificiale? Quali i rischi? Che cambiamenti introdurrà nel mondo del lavoro e nella vita sociale? Che impatto avrà sull’educazione e sulla formazione delle persone? Si svilupperà a tal punto da sostituire la creatività e le competenze umane? Queste domande sono ormai all’ordine del giorno e io stesso me le sono poste più di una volta. Tuttavia, riflettendo su questa questione, sollecitato anche dalla prima esperienza diretta con questi strumenti e dal dialogo con alcuni amici, è sorto in me un nuovo interrogativo, per me ancor più radicale: che cos’è l’intelligenza? È una domanda affiorata all’improvviso, a cui ha fatto eco la seguente: intelligenza è solo conoscenza? La novità dell’intelligenza artificiale è la sua capacità di creare conoscenza a partire dagli input di cui si nutre. Non si limita a riportare informazioni precedentemente inserite nel sistema, ma da esse ne crea di nuove. Mi domando: è intelligenza questa? O è piuttosto creazione di conoscenza?



La parola “intelligenza” richiama quella latina “ligare”, che significa legare insieme. “Conoscenza”, invece, evoca un accumulo (cum) di nozioni (notio). L’etimologia delle parole suggerisce che la conoscenza è un aspetto dell’intelligenza, ma non da sola non è sufficiente a rendere un soggetto intelligente, cioè capace di legare insieme le nozioni di cui dispone. È una costatazione resa palesa anche dall’esperienza. Penso a Newton, che da una mela caduta dall’albero ha dedotto l’esistenza della gravità. Certo, Newton conosceva tanto, era dotto, il suo cervello conteneva numerose informazioni.



Ma ciò che gli ha aperto la via alla scoperta rivoluzionaria della gravità non è stata innanzitutto la sua conoscenza, quanto piuttosto il domandarsi perché quella mela fosse caduta. Le sue nozioni gli hanno permesso di trovare risposta a quella domanda, ma senza quell’interrogativo non avrebbe neppure iniziato la sua indagine. È quel “perché?” che gli ha permesso di creare un nesso, un legame, tra il particolare della sua conoscenza e la totalità del contesto. Pensando a questo esempio, mi tornano alla mente queste parole che Luigi Giussani pronunciò nel 1986: “Una cultura – si potrebbe dire nel nostro caso “una intelligenza” – lega il particolare alla totalità. È colta – è intelligente – una posizione se tenta di collegare il momento all’orizzonte totale delle cose”. L’intelligenza di Newton non ha coinciso con l’accumulo di nozioni, ma piuttosto con la capacità di legare il particolare (la caduta della mela) all’orizzonte totale delle cose (la forza di gravità). La sua conoscenza ha avuto un ruolo cruciale per capire la natura di questo legame, ma non è stato il fattore iniziale.

L’elemento primo che gli ha permesso di essere intelligente, cioè di fare il nesso tra la mela e la gravità, è stato il domandarsi il senso del fenomeno apparentemente insignificante a cui aveva assistito. Senza quella domanda, non avrebbe potuto applicare tutta l’energia della sua conoscenza. Nessuna macchina o piattaforma potrà sostituire l’uomo nel porsi tale interrogativo. Per questo sono convinto che l’intelligenza è e rimarrà un fenomeno specificatamente umano, perché domandarsi il perché e il significato ultimo delle cose è qualcosa che solo l’essere umano può fare. Di conseguenza, le parole “intelligenza” e “artificiale” sono per me inconciliabili.

Essere consapevole di questo mi sta aiutando a considerare e utilizzare questi nuovi strumenti, che preferisco chiamare di “conoscenza artificiale”, per la funzione che hanno e non per quella che non possono avere. Ad esempio, nelle ricerche che faccio, essi possono aiutarmi a conoscere nuove tecniche di analisi, ma non potranno mai sostituire le mie domande di ricerca e le mie intuizioni su come leggere insieme (intelligere) i fenomeni che mi interessa studiare. Per quanto mi riguarda, ciò su cui giudicherò l’utilità o la pericolosità della conoscenza artificiale sarà il suo contributo ad alimentare o meno in me quella domanda che Newton si fece sotto l’ombra di albero: “Perché?”.

 

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