Continua a far rumore la vicenda di una studentessa veneta obbligata a sostenere un’interrogazione a scuola completamente bendata per garantire, alla docente che la stava interpellando in didattica a distanza, l’oggettività della prova. Fa rumore perché da un lato i rappresentanti degli studenti denunciano che queste sono le storture della Dad, mentre dall’altro emerge dal dibattito pubblico l’inquietante domanda circa l’impossibilità a trovare metodi alternativi di valutazione degli apprendimenti. In una parola, molto semplice: “Ma la prof., per essere sicura che la ragazza non ricevesse suggerimenti o non leggesse da un libro, che altro poteva fare?”. 



Vicende come questa fanno emergere la vera questione che questo anno di pandemia ha fatto emergere nella scuola, ossia il modello pedagogico che la sostiene. Un modello che, in moltissimi casi, è riconducibile a uno schema molto elementare: io ti spiego delle cose, tu le studi, poi me le ripeti e io ti do il voto su come e quanto mi hai saputo ripetere. Eppure l’interrogazione è altro, l’interrogazione è un dialogo tra due persone che sanno le cose e che vogliono capire, l’una dall’altra, che cosa la vita possa raccontare, nascondere, svelare, nel particolare che si è studiato. Un docente che chiede a uno studente cose che sa già è un docente che, come minimo, perde tempo. Un docente che verifica se uno studente ha colto il punto decisivo di quanto spiegato in classe, se ne ha fissato i nodi fondanti e se, in forza di quei nodi fondanti, ha sviluppato una propria posizione critica sull’argomento o conseguenti abilità è un docente che fa un lavoro molto più duro del collega che chiede ciò che sa, ma che – proprio per quel lavoro – sviluppa quelle competenze di carattere che qualche giorno fa Giorgio Vittadini su queste colonne definiva decisive per la formazione della persona e per la nostra stessa società. 



Un docente che ha bisogno di bendare un ragazzo per capire se quel ragazzo sta imparando qualcosa può essere tranquillamente sostituito da un computer o da un’intelligenza artificiale. Un docente che ha bisogno di guardarti negli occhi per vedere se quello che hai imparato come studente è diventato sfida per la tua vita non si pone questioni di utilità della Dad o meno, non si mette ad arzigogolare sulla decadenza dei tempi e del sapere, non fa sfoggio dei suoi peggiori peana da mancato professore universitario che si ritrova a dover anzitutto condividere per formare, ma è consapevole – in ogni circostanza – di quale sia il fattore decisivo per svolgere il proprio lavoro. Non un asettico ambiente dove rilevare chirurgicamente un dato numerico, ma un rapporto che di tutto ha bisogno tranne di una benda. 



Mandateci in giro nudi, fateci fare pure la Dad, ma lasciateci liberi di educare. E, aggiungiamo con un pizzico di timore reverenziale per la categoria, fate in modo che in cattedra arrivi chi è idoneo a costruire relazioni educative, non chi baratta dignità e professionalità per organizzare qualche pagliacciata.

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