Una  delle principali difficoltà che accompagnano e rendono difficile la sopravvivenza della specie umana è la pulsione dell’uomo a modificare la realtà in cui è inserito a proprio uso e consumo, piuttosto di coglierne le opportunità e trarne i benefici che essa può offrire. Ciò è aggravato in misura critica dalla densità abitativa della nostra  specie esclusiva, che ha ampiamente superato i margini tollerabili per le risorse accessibili. Più o meno all’inizio dell’era neolitica, l’uomo operò una transizione da una”economia predatoria” (raccolta, caccia e pesca) ad una “economia produttiva” (coltivazione delle piante e allevamento). Anche se in quell’era le risorse del pianeta non rappresentavano un limite per lo sviluppo demografico tuttavia la maturazione intellettiva dell’uomo moderno lo condusse a regolarizzare la produzione e quindi la disponibilità dei prodotti naturali, quelli alimentari in primis. Questo passaggio evolutivo contribuì in modo determinante alla stanzialità delle famiglie,  la cui manifestazione principale, intrinseca a questa evoluzione del rapporto tra l’uomo e l’ambiente,  fu il concetto di abitazione stabile, la “casa.”



Non meraviglia, pertanto, che l’uomo nella sua storia abbia cercato per quanto possibile un collegamento molto stretto tra la casa e i principali elementi del proprio vissuto. Particolarmente sentito è il vincolo veramente stretto tra la casa-rifugio e le condizioni di pericolo o di malattia. Sotto il profilo soggettivo, i principali artefici di questa percezione, che non è poca cosa, sono la presenza dell’ambiente, delle percezioni, della compagnia della famiglia che garantisce per di più la indiscussa consapevolezza di non essere abbandonati; ma poi, la storica figura del medico della famiglia, al quale da sempre è stato riconosciuto un ruolo primario ed insostituibile quale voce insindacabile nel farsi carico dello stato di salute della stessa e di rappresentare elemento di certezza e di  garanzia.



Questi medici, pur ricoprendo una funzione pubblica, svolgevano la  propria attività professionale in piena autonomia e responsabilità, non trascurando un rapporto interpersonale non  circoscritto al contesto professionale, ma esteso alla costruzione di una familiarità che nel tempo tendeva a farsi sempre più rilevante, fatto di conoscenza reciproca, di stima, di fiducia, di disponibilità, di gratitudine. E si consideri che chi qui scrive parla per esperienza diretta, in quanto – come era d’abitudine molti anni fa – per seguire un corso di specializzazione, durante il mese di ferie lavorava come sostituto del medico condotto. Un vissuto umano e professionale che generava un grande proprio arricchimento e costruiva un’indispensabile esperienza di rapporto diretto con la gente, insostituibile nell’aiutare a ricordare le specifiche caratteristiche del rapporto medico-paziente anche nel moderno contesto di una sanità impersonale, automatizzata, ossessionata da protocolli innumerevoli e privi di significato.



Come scontato, l’evoluzione del tempo ed il progresso comportano importanti cambiamenti, che non hanno solo conseguenze positive, ma non raramente travolgono anche vere e proprie istituzioni, alcune delle quali sono state consacrate nella letteratura.  Tra queste, dimensione particolare hanno comportato la espansione incessante della conoscenza medica, grazie alla acquisizione di nuove informazioni provenienti dal mondo scientifico, che hanno spinto alla diversificazione, alla specializzazione, alla codifica di procedure e risultati.

Il fenomeno in sé è certamente positivo, ma in in Italia, purtroppo,  si è accompagnato con derive problematiche: in particolare,  una progressiva perdita di forza del principio del merito, basato sull’investimento in  qualità della formazione universitaria e professionale,  non mancò di esercitare impatti negativi di livellamento: comportando la perdita della funzione storica delle facoltà di  preparazione di professionisti capaci che possono esercitare la attività alla quale sono stati preparati.

L’obiettivo di formare medici preparati e capaci  ha sofferto di un’interpretazione scorretta,  basata sull”assunto che maggiore specializzazione comportasse migliore competenza.  Un concetto improprio. Per questo la componente della preparazione pratica, soffocata dalla moltiplicazione degli insegnamenti teorici,  è stata spostata sui corsi di specializzazione, contribuendo  alla cancellazione della figura del medico generico, la cui memoria ed apprezzamento è invece ancora assai presente e rimpianta.

La legge  833 del 1978 sancì il passaggio della gestione della sanità dai medici condotti all’amministrazione pubblica e la istituzione della figura del medico di famiglia, assoggettato a sempre maggiori condizionamenti burocratici quasi sempre privi di contenuti professionali, se non limitanti l’autonomia del medico. Naturalmente tutto ciò ha contribuito a sottrarre alla figura del medico di medicina generale gli aspetti positivi che ne avevano fatto una figura apprezzata, stimata e correttamente retribuita; oggi invece è stata disincentivata, come chiaramente enfatizzato dalla attuale situazione emergenziale.

Sull’altro versante, l’estensione degli ambiti e della profondità del sapere hanno stimolato una moltiplicazione delle competenze specialistiche, il cui esercizio ha fortemente contribuito a reindirizzare gli assistiti direttamente verso gli ospedali, ormai da tempo divenuti centri di riferimento per cure avanzate e per un crescente ricorso a dotazioni tecnologiche complesse e onerose. Tuttavia, un ricorso eccessivo alla assistenza medica in regime di ricovero non indispensabile è un dato di fatto, particolarmente nei ricoveri per finalità diagnostiche, per quanto parzialmente attenuato dall’offerta di ricoveri diurni e percorsi ambulatoriali.

Lo spostamento della identità primaria  del medico nell’ambito del collettivo delle istituzioni ospedaliere ha avuto effetti  numerosi e anche imprevedibili, tra i quali i più rilevanti sono, su di un versante, la diminuzione della attrattività del ruolo ambulatoriale, sull’ altro un offuscamento  della percezione del contributo individuale. Anche il professionista ospedaliero  tende in qualche misura a diventare un numero anonimo all’interno di un gruppo. E’ comunque la perdita dell’individualità genera il prevalere della quantità sulla qualità, il che comporta inevitabilmente il trasferimento sui “numeri”. Ciò anche per effetto della  espansione di regole di natura sindacale, quali l’imperativo rispetto di turni di lavoro, di riposo, di orari, di assenze, parametri dei quali il medico condotto non conosceva nemmeno il significato. La conseguenza più immediata è la rivendicazione di dotazioni di professionisti fondata sulla numerosità anziché sulla qualità individuale: è voce diffusa che in Italia vi sia una carenza di medici.

In realtà ciò avviene senza che ne sia stato preventivamente individuato il fabbisogno, il quale se confrontato con quello delle le principali nazioni europee evolute, è enormemente inferiore: l’Italia ha una dotazione di medici almeno doppia rispetto agli altri  paesi europei. Parte delle ragioni di questa situazione si possono comprendere se si integra questo rilievo con quello di una simmetrica, seria carenza di personale infermieristico e delle  professioni correlate. Ma ciò che è necessario comprendere è che non vi è una carenza in assoluto di specialisti, ma una grave mancanza di copertura della medicina generale.

Sulla base di un eccesso di specialisti, per di più, i vertici della sanità vorrebbero negare loro il riconoscimento della possibilità di esercitare ed essere assunti dagli ospedali, se non titolari di un diploma di specializzazione, malgrado siano laureati ed abilitati. La cosa è veramente paradossale e sta alla base dell’inconsistente richiesta di aumentare i posti di ammissione alle scuole di specializzazione : nella fase di massimo flusso di ricoveri per infezione da Covid, mentre la medicina generale è decimata, la protezione civile lancia in modo urgente e continuativo messaggi per il reclutamento temporaneo e volontario di medici, anche pensionati, disponibili a collaborare per l’emergenza, purché “specialisti” (in ostetricia e ginecologia, ortopedia, oppure medicina del lavoro, eccetera)

La situazione potrebbe apparire ridicola; in realtà può giungere a rivelarsi perfino tragica, non tanto per i contenuti del supporto all’emergenza, quanto per la dimostrazione paradossale che la richiesta di specialisti alla fine diviene sostenibile solo perché l’urgenza fa riconoscere  che, comunque,  anche gli

ultraspecialisti sono abilitati all’esercizio della medicina generale. E questa è l’ennesima, drammatica dimostrazione che la amministrazione pubblica della salute scivola pericolosamente sulla priorità assegnata ad aspetti formali rispetto a quelli di sostanza.

Tornando in modo conclusivo al tema principale di queste riflessioni, sono convinto che gran parte della medicina generale debba essere restituita alla competenza del medico di famiglia, liberandolo da quella maschera da impiegato pubblico che non corrisponde alla sua funzione, riassegnare loro la vera identità di primo e fondamentale curante della popolazione e, naturalmente, riconoscere una corretta retribuzione corrispondente ad un impegno di elevato livello di coinvolgimento professionale e di disponibilità. Questa è una visione ben collaudata in altri paesi dotati di sanità avanzata; non ha ragioni di rivendicazioni di posizione, ma ha come obiettivo il recupero di quella necessaria figura di professionista che è stata illustrata all’esordio di questo testo, necessaria non per se stessa ma per ritornare a coprire una ruolo mortificato che naturalmente mortifica anche la qualità del risultato.