Nella cultura liberale il responsabile primo della gestione di una grande impresa che genera risultati positivi – raggiungendo obiettivi prefissati, non solo per gli azionisti, operando in mercati grandi e complessi – viene premiato con metodo meritocratico, sulla base di precisi accordi contrattuali. È un principio che continua a essere contestato in Italia: Paese approdato tardi alla cultura liberale di mercato e ancora condizionato da inerzie di natura “pauperistica”, tuttora alimentate da culture e forze politiche che categorie consolidate collocano nel “centro-sinistra”.
Un caso tra molti – alle cronache in questi giorni – è quello che riguarda il compenso di Andrea Orcel, amministratore delegato di UniCredit, di cui Fondazione Cariverona (che presiedo da sette anni) è importante azionista fin dalla nascita. Fin dalla sua chiamata – avvenuta nel totale rispetto delle regole di governance di UniCredit, per concludersi nel vaglio dell’assemblea annuale del 2021 – l’amministratore delegato ha operato per rilanciare tutte le condizioni di competitività del gruppo. Il ritorno a una redditività congrua (appena confermata nel progetto di bilancio 2022) ne è stato l’esito più rilevante. Il parallelo ritorno di una congruo dividendo per gli azionisti e la notevole rivalutazione del titolo sono stati effetti specifici dell’azione manageriale del dottor Orcel: che ha espresso le competenze per cui era stato chiamato precipuamente nella ricostruzione gestionale di UniCredit, anzitutto come rete bancaria nei territori dell’Azienda-Paese. Né sembra fuori luogo ricordare anche che – con il dottor Orcel in posizione di capo-azienda – UniCredit si è reso disponibile presso il ministero dell’Economia e delle Finanze, studiando a lungo un possibile intervento di de-statalizzazione e messa in sicurezza di Mps.
Bene: fin dal primo giorno il pacchetto di compenso del dottor Orcel è stato oggetto di striscianti polemiche mediatiche. Che – ci tengo a ribadirlo nuovamente in modo netto – Cariverona considera ingiustificate, pretestuose, dannose per il quotidiano perseguimento degli obiettivi di breve e medio termine da parte del gruppo e del suo management. Il compenso del dottor Orcel è stato negoziato con procedure rigorose e trasparenti ed è stato acquisito in modo meritato: per nulla anomalo rispetto agli standard adottati correntemente presso gruppi comparabili in Europa e negli Stati Uniti.
Ho voluto riservare alcune righe a questo caso perché ho potuto osservarlo da vicino, in quanto all’interno della mia sfera istituzionale d’attenzione. Ma, ripeto, non si tratta che di un singolo caso all’interno di un quadro politico, economico e culturale assai più ampio e profondo. E a mio avviso vi sono pochi dubbi che sia questo humus culturale – depositato principalmente dal portato marxista e dal cosiddetto cattolicesimo “progressista” nelle diverse formazioni partitiche susseguitesi nell’Italia repubblicana – a frenare ancora in modo pericoloso l’affermazione di regole del gioco basilari.
È un quadro di basics cui il nostro sistema-Paese non può pensare di sottrarsi in alcun modo, allorché da decenni è una liberademocrazia europea, parte integrante di quanto abbiamo riscoperto in questi mesi essere Occidente. Né appare corretto invocare “a prescindere” la questione delle diseguaglianze – che pure esiste e non è marginale – per continuare a negare un principio meritocratico quando correttamente applicato. È un fondamento culturale per nulla ideologico: è invece cardine di una democrazia di mercato funzionante, competitiva e quindi autentica.
L’approccio anti-meritocratico – talora espresso in modi opachi – è fonte di rischi ed elevati e più che potenziali, su uno spettro socioeconomico molto ampio. Da cardiochirurgo e professore universitario – il mio personale impegno di una vita – ho vissuto quotidianamente il fenomeno cosiddetto della “fuga dei cervelli”. Io mi sono laureato in Italia, ho trascorso lunghi periodi di perfezionamento in Gran Bretagna e Stati Uniti, sono ritornato nel mio Paese. Sono stato uno dei milioni di giovani uomini di scienza (di ogni Paese) che nell’ultimo mezzo secolo hanno potuto muoversi sulle scie della meritocrazia correttamente intesa. Senza un humus meritocratico (globale, certamente in Occidente) non avrei potuto mettere alla prova e migliorare le mie competenze fuori d’Italia e probabilmente non sarei tornato in Italia se nel mio Paese – ancora negli anni ’70 – non fosse sopravvissuta una base resiliente di cultura meritocratica. Che da allora ho però visto erodersi: in misura continua e preoccupante. Io stesso osservo che la libera circolazione dei cervelli (delle competenze, delle conoscenze, delle volontà di progresso condiviso) si trasforma sempre di più per i giovani italiani in “fuga”, sempre più spesso senza ritorno (e vale anzitutto per i giovani del Sud che emigrano al Nord per studiare e poi lavorare).
Non è affatto solidarietà quella che appiattisce il riconoscimento del merito, all’università piuttosto che nel mondo delle imprese o delle professioni. Ci tengo a sottolinearlo anche da presidente di una delle Fondazioni italiane di origine bancaria: a cui la legge, la Corte Costituzionale e soprattutto una domanda più pressante da parte dei territori impongono come missione la generazione di “sviluppo”. Il “welfare sussidiario” non può ridursi a supplenza di funzioni statali sempre meno efficienti e più insostenibili sul piano delle finanze pubbliche. Le Fondazioni continuano doverosamente a generare assistenza solidale alle fasce deboli e sofferenti di chi abita i loro territori. Ma proprio quando tale crisi si accentua ed estende, tanto più è necessario sostenere i “meritevoli e capaci”, non a caso ben individuati dalla Costituzione democratica. Saranno loro a sostenere – applicando il principio di solidarietà affermato fra i principi fondamentali dalla Carta – quelli che meritano di essere sostenuti dai loro concittadini.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI