La notizia data oggi sulla prima pagina della Stampa della conversione degli spagnoli fratelli Adrià alla pizza italiana ha del clamoroso, ancor più se si legge che il simbolo della nuova cucina internazionale ha chiuso con i conti in rosso. E quindi si accoda, come hanno fatto in tanti, ad aprire locali più informali. Che dire? Abbiamo sempre sostenuto che non è possibile un eccessivo assembramento dell’alta cucina nell’offerta ristorativa (soprattutto in provincia) e che c’era bisogno di un ritorno all’essenzialità, mentre altrove venivano celebrate le schiumette e i sifoni? Lo stesso Davide Scabin, chef al Combal di Rivoli, nel novembre del 2006, a Golosaria a Palazzo Mezzanotte a Milano asseriva che questo era il momento di una via italiana alla cucina, non subordinata alle mode spagnole. Oggi è una realtà. Anche se domenica, Sergio Romano sul Corriere della Sera ha scritto che la nostra cucina è un’eterna seconda rispetto a Francia e Cina (è quella giapponese, allora, dove la mettiamo?). Sarà, ma la notizia odierna dei fratelli Adrià va proprio in un’altra direzione, così come il successo conclamato fino all’imitazione, del nostro made in Italy a tavola, che il ministro Zaia ha stigmatizzato nei giorni scorsi durante il G8 dell’agricoltura tenutosi in Veneto.

Tra le curiosità che ci chiediamo è se Albert Adrià, che la scorsa settimana è stato a Padova nel carcere dove la cooperativa Giotto sforna panettoni, poi da Iginio Massari a Brescia ancora a studiare l’arte delle paste lievitate, sia stato anche da Simone Padoan alla Pizzeria I Tigli di San Bonifacio (Vr). È lui che ha rivoluzionato il concetto della pizza, partendo dalla riconsiderazione del piatto tondo. Era così migliaia di anni fa, come ricordano gli scavi di Pompei. Dunque in quanto a tradizione non siamo certo secondi. In ogni caso la notizia della consacrazione, ennesima, di una gloria nazionale come la pizza fa riflettere. Dove sta andando al cucina nazionale e anche internazionale?