Non so come fosse quel gennaio del 1961 quando io e la mia sorellina Ornella venivamo al mondo, gemelli, figli di Giuseppe e di Maria. So solo, dai racconti, che quella nostra coppia fu una sorpresa sconvolgente, giacché non c’erano gli strumenti d’oggi che anticipano persino il sesso.

Nascemmo a Milano, alla clinica Mangiagalli, ma le nostre radici erano nel Monferrato, a Masio esattamente, dove la mia piccola sorellina sarebbe ritornata troppo presto, a poco più di anno, il 24 di febbraio del 1962, a riposare in quel cimitero guardato di sbieco dalle vigne di barbera. In quelle vigne anche mio nonno Francesco ci lasciò la vita, e non lo conobbi, così come mio nonno Paolo che faceva il macellaio, collega del nonno di Urbano Cairo, che aveva il suo mattatoio ad Abazia, la frazione principale del paese.



Le mie radici sono diventate quelle, arricchite dai racconti dei bigatt (i bachi di seta) di nonna Angiolina, dal sapore acre della bagnacaoda, dalla casa aperta che era quella vigna sulla strada dei Mogliotti, che avrebbe portato al paese di Giacomo Bologna, il più grande uomo del vino che abbia mai conosciuto. Sul Tempo del Vino (Rizzoli 2006) ho consegnato le mie memorie ed è stato un grande onore, perché quando si sale sulla vetta del tempo si capisce meglio il puzzle della vita, le ragioni di un percorso che hanno a che fare con la grazia e con qualcosa di non programmabile.



Tra i miei nove maestri che mi hanno indirizzato a scrivere di vino e cibo, e poi a occuparmi di quel fenomeno che è il gusto, ce n’è uno sopra a tutti che era come una montagna: don Giussani. Quando venne a casa mia era di maggio (l’anno il 1985), con un gruppetto di studenti universitari come me. E come un fulmine ricordo ancora quell’istante quando gli servii un vino, che lui colse come un giglio del campo: si interruppe dal suo dialogo, lo guardò, lo annusò e poi lo assaggiò: “Ma… ma questo non è un vermouth qualsiasi” – mi interrogò fissandomi – “Proprio no don Gius – risposi colto di sorpresa – infatti è un Barolo… un Barolo chinato”. Chi era accanto a noi quella sera si chiese perché mai avesse interrotto il dialogo, per un vino poi… Io invece mi portai appresso per la vita quel gesto serio di un uomo che si inchinava anche davanti al giglio del campo, per conoscerlo… per riconoscerLo.



Per me il gusto è iniziato lì: il gusto del passato, del mio passato; del presente, adesso; e di quello che verrà, che non può che essere la scoperta continua di Colui che parla attraverso frammenti di bellezza, di bontà, di cose che corrispondono a qualsiasi uomo. “Il gusto c’è, e tutte le cose che possiamo vedere, toccare e percepire con il gusto – disse mille anni prima di noi, Santa Hildegard von Bingen – sono state create da Lui. Ed Egli le ha viste tutte in qualche modo indispensabili per l’uomo”. E poi aggiunge: “Per l’amore totale, per la paura, l’ubbidienza e la prudenza in ogni occasione. Tutto ciò che ha creato ha qualcosa di visibile e non visibile. Ciò che si vede è debole, ciò che non si vede è forte e vivo”.

 

Con questo pensiero io ringrazio della partecipazione alla vita di questi 50 anni, sicuro che ci siano più cose in cielo e in terra – per dirla con Shakespeare – che in ogni filosofia o ragionamento. Grazie a tutti voi, allora, grazie agli amici di Papillon, ai miei lettori, a chi continua a percorrere con me questo tratto di strada e di conoscenza. Grazie semplicemente d’esserci!