“Ogni volta che il consenso interno scricchiola, ogni volta che Erdogan ha un obiettivo da raggiungere, gioca molto sulla carta internazionale per ricompattare il Paese”. Valeria Giannotta, direttore scientifica dell’Osservatorio Turchia del CeSPI, spiega così le dichiarazioni del presidente turco che ha minacciato di invadere Israele. La verità è che le sue parole sono anche a uso interno, per attirare l’attenzione delle forze nazionaliste e conservatrici e trovarle dalla sua parte nella richiesta di emendare la Costituzione: vuole aggiungere la possibilità di un terzo mandato per il presidente, per poter prolungare la sua permanenza al potere. Quello attuale è il suo secondo e se le regole non cambiano non potrà più presentarsi. Ma siccome non ha i numeri per questa operazione, cerca di attirarsi le simpatie anche di altri partiti: in Turchia, d’altra parte, tutti sono schierati con la Palestina, richiamarsi a questa posizione significa ottenere le simpatie dell’opinione pubblica. La risposta a Erdogan, comunque, non si è fatta attendere: l’establishment israeliano ha paragonato il presidente turco a Saddam Hussein, ricordando la fine del dittatore iracheno.



Quanto vanno prese sul serio le bellicose parole di Erdogan contro Israele?

Sono affermazioni che fa ogni tanto, a volte anche nei confronti della Grecia, ma è tutta retorica. Le dichiarazioni le ha rese in parlamento per ricompattare le fila più nazionaliste e religiose, quelle che hanno contribuito alla sconfitta del presidente alle elezioni amministrative, accusando la Turchia di tenere una politica ambigua nei confronti di Israele, a parole contro Tel Aviv, ma di fatto senza interrompere i rapporti dal punto di vista commerciale ed energetico. Per rispondere a queste critiche, nei primi giorni di aprile sono state applicate sanzioni nei confronti di alcuni prodotti israeliani. Niente di risolutivo: ogni tanto spuntano foto di navi turche in porti israeliani, segno che il grosso dei rapporti commerciali a livello logistico ed energetico va avanti.



Ma perché ha bisogno di ricompattare il Paese intorno a sé?

Erdogan sta preparando il terreno per emendare la Costituzione e non ha i numeri per farlo. Sottobanco ci sono manovre per accaparrarsi le simpatie delle forze più nazionaliste e dei conservatori. Di base, la Costituzione risale al 1980, ai tempi delle giunte militari, e riconosce due mandati al presidente. Erdogan è arrivato all’ultimo e vuole assicurarsi il terzo. C’è un dibattito nell’opinione pubblica su questo, anche perché ha 70 anni, un nuovo incarico vorrebbe dire un Erdogan alla Biden maniera. Se riuscisse nel suo intento, una volta aggiustati gli indicatori economici, potrebbe indire nuovamente elezioni anticipate.



Parole del genere però non sono indirizzate solo all’interno del Paese.

A fronte delle violenze che stanno crescendo e anche alle rappresaglie che ci sono nei territori libanesi, la posizione tradizionale turca è di schierarsi per la causa palestinese, per gli oppressi, appoggiando le iniziative della giustizia internazionale contro Israele. La Turchia, a livello di negoziazione, è rimasta nelle retrovie quanto a Gaza, mandando avanti il Qatar. Le dichiarazioni di Erdogan, riprese e confermate dal ministero degli Esteri e un po’ da tutte le frange del partito del presidente, hanno una valenza simbolica, sono schermaglie.

Ci sono elementi che potrebbero confermare la tesi dell’invasione?

La Turchia è membro della NATO, ha riallacciato i rapporti con gli USA, portando a casa gli F16: non ci sono le condizioni per pensare a un’azione contro Israele. Erdogan ha evocato gli interventi in Nagorno Karabakh e in Libia senza che ci siano i margini di fatto per ripeterli in Israele. E poi non gli conviene proprio. Le sue parole si comprendono ricordando che la Turchia è forte di un passato ottomano in virtù del quale i turchi hanno indicato Gerusalemme come loro linea rossa, visto che quei territori storicamente sono appartenuti all’Impero. A tutto ciò si aggiunge la politica di Erdogan, dal 2002 schierato con gli “oppressi”, pro-Palestina.

Dal punto di vista militare, la Turchia come è messa, avrebbe i mezzi per realizzare un’operazione contro Israele?

È il secondo esercito più grande dopo gli USA tra quelli della NATO. È sempre stato un Paese security consumer, basandosi sui livelli di sicurezza garantiti dagli alleati. Negli ultimi anni, tuttavia, ha puntato molto sulla difesa, producendo droni, macchinari aerei, fregate di ultima generazione, iniziando a vendere questi apparati nella regione mediorientale, nel Caucaso e anche ad alleati NATO. Ora sta diventando un security provider. Dopo la normalizzazione con l’Egitto, i turchi hanno firmato accordi per la vendita di droni e di attrezzature per la difesa.

Nonostante tutto, la Turchia non ha rotto con Israele. Che rapporti ci sono fra i due Paesi?

Le ambasciate non sono state chiuse. Ci sono rappresentanze diplomatiche e rapporti commerciali che vanno avanti, anche se sono state imposte sanzioni a decine di prodotti israeliani. Anche a livello giornalistico, ci sono inviati turchi a Gerusalemme e troupe di Anadolu Agency in Palestina. I giornalisti della TV di stato turca, però, sono stati attaccati, ci sono video con le forze di polizia che rincorrono i cameraman per picchiarli, sono diventati virali. Bisogna tenere conto che in Turchia non c’è un dibattito su chi ha ragione tra i palestinesi e gli israeliani: tutti sostengono la causa della Palestina da un punto di vista di fratellanza musulmana o del sostegno umanitario. Erdogan gioca su questo elemento per riuscire ad allargare i consensi.

(Paolo Rossetti)

 

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