La Svezia ha lanciato sabato un drammatico Sos energetico. Il primo ministro Magdalena Andersson ha annunciato che il governo – socialdemocratico – è pronto a erogare aiuti pubblici diretti ai produttori di energia colpiti dalla decisione russa di bloccare i flussi di gas attraverso Nord Stream 1. Stoccolma teme che il prolungarsi e l’aggravarsi delle turbolenze sul mercato del gas possano mandare in bancarotta le aziende che producono energia acquistando gas a prezzo ormai decuplicato.
Di qui il whatever it takes della Andersson, che ha promesso sussidi d’emergenza nell’ordine di centinaia di miliardi di corone svedesi (miliardi di euro). Nel contempo agli svedesi è stato prospettato un “inverno di guerra”, con razionamenti in arrivo nei consumi energetici. E il governo finlandese – guidato dalla socialdemocratica Sanna Marin – ha preannunciato passi analoghi.
Il passaggio appare di qualche significato oltre le frontiere dei due Paesi scandinavi, su più di un versante.
Il primo è la contemporaneità con l’annuncio da parte del cancelliere tedesco Olaf Scholz (socialdemocratico) di un’imposizione straordinaria sui produttori di elettricità attraverso carbone, nucleare, biomasse, impianti solari ed eolici. A queste imprese verrà imposto un “cap” che faccia emergere gli extraprofitti realizzati negli ultimi mesi dagli aumenti dei prezzi dell’energia elettrica all’utente finale provocati dagli enormi rincari del gas legati alla “guerra delle sanzioni” fra Ue e Russia. Il prelievo straordinario andrà a finanziare una manovra stimata nell’ordine di 65 miliardi di euro, con cui Berlino intende fronteggiare il sempre più probabile “inverno di guerra”.
In ogni caso da Berlino giungono due messaggi: a) l’industria dell’energia non è un monolite, non è fatta solo di “pescecani”, vanno scelti i produttori cui applicare “windfall tax” e quelli cui invece dare soldi pubblici; b) in una fase eccezionale come l’attuale i produttori già transitati con successo ai territori dell’energia verde possono essere privati – nell’immediato – di incentivi e agevolazioni e trattenuti in via fiscale da pericolose deviazioni speculative (e questo anche dove i Verdi partecipano alla maggioranza di governo).
Un secondo elemento peculiare dell’emergenza svedese e finlandese è il fatto che entrambi i Paesi – membri della Ue – hanno da poco aderito alla Nato dopo l’offensiva di Mosca in Ucraina. Stoccolma non deve presidiare frontiere dirette come invece Helsinki, ma si affaccia in modo importante sul Mar Baltico, divenuto caldissimo. Entrambi i Paesi sono parte della regione scandinava, per molti versi omogenea, anzitutto con la Norvegia. Che non fa parte dell’Unione Europea, ma è invece storico paese-perno dell’Alleanza Atlantica, tanto che l’attuale segretario generale è l’ex premier Jens Stoltenberg.
Oslo è uno dei grandi produttori mondiali di petrolio e gas, ma ha finora resistito a ogni appello alla solidarietà occidentale. La Norvegia che ha apertamente sostenuto l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato – in attesa dell’Ucraina, pre-iscritta anche alla Ue – non sembra disponibile a condividere alcuno dei sacrifici cui gli Usa hanno di fatto chiamato i paesi europei nella “crociata” contro l’aggressione russa. Oslo sembra preoccupata solo di massimizzare i profitti del Norges Fund, il fondo sovrano statale, non diverso per strategie da quello delle monarchie islamiche.
Terzo, e certamente non ultimo spunto di riflessione, è il fatto che la Svezia è il paese di Greta Thunberg, la giovanissima attivista che – nei due anni precedenti la brusca cesura del Covid – era divenuta una celebrity globale assoluta per le sue campagne sull’emergenza climatica. La polemica di Greta contro le energie fossili è stata totale: ha attaccato la politica delle trivellazioni di Donald Trump e lo sfruttamento a tappeto di petrolio e gas da parte di Vladimir Putin e dei suoi oligarchi nella sterminata Russia asiatica. In Europa il “partito di Greta” ha mobilitato per anni milioni di giovani: tenendo testa, fra l’altro, ai meno festosi cortei dei “gilet gialli”, contestatori di un abbandono troppo rapido e costoso dei combustibili tradizionali.
Dov’è finita, oggi, Greta? A maggior ragione: cos’ha da dire sulla scelta del suo governo (“rosa & dem”) di destinare miliardi di tasse nel sostegno di imprese tradizionali in crisi perché la Russia ha bloccato le forniture di gas?
A Greta – oggi 19enne – sembra offrirsi un’occasione unica (almeno sulla carta): quella di presentare la crisi energetica legata all’escalation geopolitica come una conferma definitiva delle scelte scellerate del “mondo di ieri”. Se i Paesi occidentali avessero abbracciato da subito e con impegno reale il “vangelo di Greta” l’arma più potente di Putin sarebbe un residuato. E un’Europa già avviata con decisione sulla via della transizione verde non sarebbe teatro né di drammatici annunci da Stoccolma nel fine settimana, né di spettacoli distruttivi di ogni supposta “civiltà occidentale” come quello in scena a Oslo.
Comunque: perché spendere altri miliardi per imprese energetiche vecchie e odiose? E se per i Paesi europei si profilano uno o più inverni “di guerra”, non è preferibile a questo punto accelerare sulla strada della transizione green? Il freddo può uccidere qualche anziano fragile in più delle medie? Il Covid ha confermato che le popolazioni nordiche hanno una sensibilità molto temprata – derivante anche dalla fede luterana – di fronte alla morte “fatale”.
Greta, però, tace. Forse teme che – se rispolverasse i suoi anatemi – la sua stessa premier la scambierebbe per un troll del Cremlino. E poi petrolio, gas e oligarchi non infestano solo la Russia, ma anche l’Ucraina.
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